Niente da fare, non lo trovo. Il maledetto pin per l’accesso ai servizi online dell’Inps che avevo trionfalmente ottenuto l’anno scorso, è sparito. Nella cartelletta zeppa di scartoffie e foglietti sparsi contenenti codici, password, username e altre sconosciute stringhe alfanumeriche non c’è. Poco male. Per fortuna, penso, il nostro nuovo Inps 2.0 ci dà la possibilità di resettare il vecchio pin e prenderne uno nuovo. Anche perché non ho nessuna voglia di passare un’altra mattinata in fila allo sportello per farmene dare un altro.
E allora via con la procedura guidata. Pochi, semplici passi e il gioco è fatto. Allora, mi si chiede di fornire almeno due dei tre indirizzi a suo tempo indicati. Opto per cellulare e posta elettronica, chiedendomi al contempo come mai mi si chieda di indicare due strumenti di ricezione. Cosa che scopro immediatamente dopo, quando la “procedura guidata” mi rivela che sta per arrivarmi una chilometrica striscia di numeri e lettere: la prima metà sul cellulare, la seconda metà sulla posta elettronica. Comincio ad allarmarmi. Nel giro di cinque minuti, circa, arriva il nuovo codice e l’illusione di aver chiuso la pratica si impadronisce di me. Dura il tempo di cliccare sul link che, dalla mail, dovrebbe riportarmi alla procedura guidata. Mi viene chiesto di ricopiare le sedici (!) tra lettere maiuscole e numeri che mi hanno inviato metà da una parte e metà dall’altra. Ricopio con calma il poema pin stando ben attento a non sbagliare. Ed ecco finalmente il pulsante tanto atteso: generazione del nuovo pin. Mi domando se non andasse bene quello appena inviato oppure se non fosse il caso di farlo scegliere a me. Ma fa niente. Schiaccio e attendo di conoscere il maledetto codice.
E’ a questo punto che accade l’imponderabile. Il nuovo pin è incasellato, lettera per lettera, numero per numero, in una mascherina che, ovviamente, non consente il copia e incolla. Tra le lettere, ce n’è una che conosco di vista. Non vivendo dalle parti del circolo polare artico, infatti, non mi è mai capitato di doverla scrivere. E’ l’aptang, una “o” barrata tipo tram che si trova negli alfabeti di Danimarca, Isole Far Oer e Norvegia e la cui pronuncia non c’entra una mazza con la nostra “o”.
Superata la prima sorpresa, perlustro centimetro per centimetro la tastiera del mio pc alla caccia della lettera scandinava. Non c’è. Non ho molto tempo da perdere in ricerche su Google e decido di ripetere l’operazione, chiedendo al generatore di pin dell’Inps di procurarmene un altro. Esce di nuovo l’aptang. Riprovo ancora, cambiano tutte le altre lettere e i numeri ma l’aptang è sempre lì. Ed è a questo punto che comincio a perdere l’aplomb (che non c’entra con l’aptang) e a inviare le prime, sommesse maledizioni all’Inps e ai suoi derivati.
Mi tocca cercare il modo per digitare l’aptang. Google offre diverse chance. E io le provo una per una. Copia e incolla dalla mappa dei caratteri? Copia e incolla dai simboli di Word? Codice Ascii Alt+157 con NumLock bloccato? La risposta del sistema Inps è sempre la stessa: il nuovo PIN digitato è formalmente errato. Scartata la possibilità di ordinare una tastiera dalle Far Oer, non mi resterebbe che il call center ma preferisco vivere.
Dopo aver perso tempo prezioso per stare dietro a queste bizzarre procedure, ho da fare tre considerazoni. Prima di tutto devo fare i complimenti all’Inps per l’impegno posto nel complicare la vita ai suoi utenti; la procedura guidata per riavere le credenziali d’accesso ai servizi online è roba da altissima ingegneria burocratica. In secondo luogo, porgo le mie più sincere condoglianze ai pensionati che intendessero dire basta alle code allo sportello per cimentarsi con il nuovo, comodo servizio che basta un clic da casa. Infine vorrei salutare gli amici dell’Inps con un sentito Ɐꝴꝱ@Īĕ Ǎ ᵮᶏṝÈ Īň ʞʮʟØ
Ps.La mattina successiva, il generatØre di pin dell’Inps ha deciso di cambiare alfabeto. Stavolta sono stato fortunato: è uscita la “x”.
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