uscito il 24/1/2016
Lo scambio d’insulti tra il dandy Mancini e il buzzurro Sarri mi ha riportato alla memoria un po’ di “cose di campo” che succedevano quando ero bambino.
Gli insulti, ieri come oggi, traevano ispirazione dalla diversità. Dalle mie parti si diceva “froscio” e non frocio; forse perché ancora non lo si vedeva scritto da nessuna parte, era stato tramandato oralmente. Persino sui muri si scriveva froscio. Comunque sia, si dava del froscio a un compagno senza pensare che lo fosse realmente. Lo si apostrofava in quel modo per insultarlo e farlo incazzare, a volte per scherzare. Dire froscio a qualcuno, ad esempio a scuola, non comportava reprimende sui diritti dei gay e sulla discriminazione sociale. L’insegnante di turno, semplicemente, ti rimproverava perché avevi detto una parolaccia.
Froscio era una parolaccia. Come lo era, ad esempio, il termine bastardo, il cui significato, nel tempo, si è trasformato da “figlio di padre ignoto” a “persona della quale diffidare”. Si utilizzavano anche altri riferimenti decisamente sgradevoli, come “handicappato” e “mongolo”, rimasti purtroppo attuali. L’insulto decisamente più grave, però, quello che solitamente comportava le botte, era “figlio di bagassa”. La mamma era intoccabile, soprattutto da ragazzini.
Di omosessuali dichiarati, all’epoca, se ne vedevano ben pochi, almeno nella cittadina in cui stavo. Ce n’erano tanti, evidentemente, ma la maggior parte se ne stava nascosta per evitare di essere presa di mira dalla maggioranza buzzurra. Oggi non è più così, per i motivi che conosciamo. Eppure, la maggioranza buzzurra è sempre lì, zoccolo duro di quella in doppiopetto e crocifisso che trova espressione nelle migliaia di emendamenti politicamente trasversali che tentano di azzoppare la legge sulle unioni civili.
Qualche giorno fa sono stato al cinema a vedere “Quo vado”. C’è un momento, durante la parentesi norvegese del protagonista, che propone un matrimonio gay. L’effetto è a sorpresa. La scena si apre subito con un bacio tra l’ex compagno scandinavo della donna di Zalone e un uomo di colore. Alle mie spalle, in platea, qualcuno esclama “che schifo!”. E’ un uomo, più o meno della mia età, vicino a lui ci sono dei bambini, forse i figli. Nessuno lo rimprovera, nemmeno io. E’ la cosa che mi ha colpito di più di un film che, per molti versi, è lo specchio del Paese che siamo.
Tornando alla diatriba tra il dandy e il buzzurro, penso che la vera anomalia siano lo spazio e il tempo dedicati a una stupidaggine simile, maturata per di più in un ambiente, quello del calcio, dove i problemi sono ben altri, dove persino il razzismo può liberamente manifestarsi in tutta la sua virulenza, in qualche modo accettato in quanto fenomeno collettivo, esercitato non dal singolo ma da consistenti gruppi di persone. Il che rende retorici tutti i nostri bei discorsi sul rispetto e sui diritti.
Sarri e il tizio del cinema sono la stessa persona, anche se il pallonaro, probabilmente, avrebbe reagito con una risata di scherno di fronte a quel bacio. Di Sarri è piena l’Italia. Eppure ne parliamo per giorni, come se ce ne fossimo accorti ora.
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