Nel gennaio del 2011 una marea nera fuoriuscì dalla centrale termoelettrica di Fiumesanto della multinazionale tedesca E.On, e si riversò per tutta la costa settentrionale dell’isola, dal Golfo dell’Asinara fino a Capo Testa. Fu un disastro ambientale di enormi proporzioni, che impegnò per la bonifica centinaia di uomini a raccogliere le palline di orimulsion depositate lungo spiagge e scogliere.
Oggi scopriamo con orrore che quello, a giudicare da questa nuova inchiesta che ha portato all’arresto del direttore e all’incriminazione degli altri dirigenti, non fu un caso isolato.
Secondo gli inquirenti, dunque, c’è stata una trascuratezza dolosa e continuata nella gestione degli impianti di Fiume Santo.
E’ inquietante notare come questa trascuratezza coincida con il disimpegno della società tedesca negli ultimi anni.
La società ha iniziato a fermare due linee degli impianti nel 2013, proprio quelle che utilizzano idrocarburi, nonostante le promesse e nonostante il grave episodio di inquinamento da farsi perdonare. Attualmente è in corso il passaggio di proprietà con le restanti linee di produzione, che utilizzavano il carbone. La proprietà viene ceduta alla multinazionale ceca EPH. Un passaggio di proprietà che pone inquietanti interrogativi, perché è in vendita tutto l’asset italiano, ben 6 impianti, da parte della multinazionale tedesca.
Su questa decisione pesa, certamente, l’invasione delle cosiddette energie rinnovabili, che in Italia comprendono persino i termovalorizzatori, quelli che bruciano i rifiuti solidi urbani convertendo in parte il calore in energia elettrica.
Le energie rinnovabili, essendo lautamente incentivate da contributi pubblici, finiscono per avere sul mercato una posizione privilegiata.
Inoltre, proprio a causa di questi contributi pubblici, le centrali per la produzione di energia rinnovabile finiscono per non essere rinnovabili per nulla. I casi delle centrali a biomasse sono significativi. E’ in corso una revisione degli incentivi pubblici da parte della Comunità Europea alle centrali a biomasse, perché esse finiscono per sottrarre terreno agricolo all’alimentazione umana, per alimentare il disboscamento nelle aree tropicali per la produzione di olii vegetali combustibili come quello di palma e, infine, con favorire il fenomeno dell’accaparramento di terre nei paesi più poveri noto con il nome di “land grabbing”.
In Sardegna sono molto forti i dubbi e le perplessità in relazione alla costruzione di due centrali a biomasse, una nel sud dell’isola, della Mossi e Ghisolfi, che dovrebbe essere alimentata mediante una filiera della canna domestica, e l’altra proprio a Porto Torres, dell’Eni, che doveva essere alimentata con la filiera del cardo ma che, a quanto pare, non è più in previsione, mentre è restato in piedi il progetto di chimica verde di Matrica, una joint venture tra Novamont ed Eni, anch’essa alimentata da una centrale a biomasse ma di minori dimensioni.
C’è tutto un affollamento di richieste di autorizzazioni per l’impianto di centrali che vanno dalle biomasse, all’eolico, al fotovoltaico e al termodinamico, spesso da multinazionali provenienti da ogni parte del mondo, persino dall’India e dalla Cina.
Tutte attratte dal business degli incentivi che drogano il mercato e producono, spesso, degli impianti discutibili, come le serre fotovoltaiche dove di serra c’è ben poco, anzi nulla, e resta il fotovoltaico alimentato da fondi pubblici, ovvero dalle nostre bollette.
Tutte queste multinazionali si affollano negli uffici regionali con fare minaccioso, annunciando causa milionarie in caso di diniego.
Ma quello che mi fa riflettere è la capacità che hanno le grandi multinazionali di provocare disastri a distanza, senza che esse, in nessun modo, finiscano per pagare il conto.
L’intero comparto del petrolchimico di Porto Torres è stato, secondo i roboanti annunci dell’ENI, convertito in chimica verde, previe bonifiche che però non sono ancora iniziate.
Nel sud dell’Isola una grande multinazionale americana, l’Alcoa, ha chiuso le sue fabbriche lasciando una situazione paragonabile ad una vera e propria bomba ecologica. Le bonifiche ancora non sono iniziate.
Nel Sulcis – Iglesiente la Portovesme srl, della grande multinazionale svizzera Glencore, ricicla i fumi di acciaieria, ricavando da quelle scorie un po’ di minerale e depositando il rimanente tossico e nocivo, in quello che sembra a molti essere il vero business, in una gigantesca discarica alle porte di Iglesias, che già non è più sufficiente e ne è in previsione un’altra a Carbonia.
Per non parlare della miniera d’oro, presto abbandonata, di Furtei. Una storia che sembra ambientata in Africa, con i tecnici australiani, “bianchi”, che promettono miraggi e si fanno pure “compartecipare” dalla Regione Sarda, dentro una società multinazionale canadese, la Buffalo Gold Ltd, per portare via l’oro e, naturalmente, fallire subito dopo lasciando una discarica di cianuro da bonificare.
E infatti tutto questo ha qualche similitudine con i disastri che queste multinazionali provocano in Africa e negli altri paesi del terzo mondo.
Alla fine qualche dirigente locale viene indagato, qualcuno finisce pure in galera, ma quelle multinazionali rimangono lontane, inarrivabili, impunite, estranee alla giustizia degli uomini.
E io ancora non ho visto una che una bonifica eseguita in Sardegna.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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