di Fiorenzo Caterini.
I Sardi sono stati Popolo fino a quando hanno avuto le foreste? Ovvero, l’identificazione del popolo sardo con le foreste e la loro distruzione, ne ha compromesso l’unità?
La domanda che mi pose Valerio Medda all’incontro organizzato dall’Associazione Spazio Libero a Cagliari per la presentazione del mio libro sul disboscamento dell’isola, è rimasta in stato di attesa nella mia mente per un po’, finché la risposta non fosse matura.
Un popolo si identifica con lo spazio che lo circonda, e con il territorio ove pone la sua casa, la sua zappa e le sue radici. Ma per sentirsi tale, un popolo, ha necessità di distinguersi dagli altri popoli; ciò avviene con il patrimonio culturale, formato da memorie, miti condivisi, storia, costumi, tradizioni e soprattutto dalla lingua. Altro elemento fondamentale per “sentirsi” popolo, è la possibilità di decidere del proprio destino, ovvero l’autonomia e l’autodeterminazione.
Prima del disboscamento, però, ci sono stati altri avvenimenti che si inseriscono nel quadro della perdita di unità e di consapevolezza del popolo sardo, con quella che Placido Cherchi definiva come la “autocoscienza del valore”.
Il primo grande trauma che ha avuto ripercussioni definitive sotto questo punto di vista è quello relativo alla cosiddetta “Battalla” di Sanluri nel 1409, ovvero l’atto finale di una lunghissima guerra, durata quasi cent’anni, tra i sardi giudicali e i catalano – aragonesi.
I sardi erano riemersi, in epoca giudicale, dalla parziale dominazione punica, dalla devastante dominazione romana con le sue cruente carneficine, dagli attacchi ripetuti degli arabi, dalle invasioni barbariche, dalle pressioni del papato e dell’impero, praticamente autonomi. Riemersero riprendendo, è stato detto dagli storici, le vecchie istituzioni “pre-latine”, che altro non erano che quelle nuragiche, un termine che l’impalcatura sociale e accademica dominante vieta però di usare.
Il fatto che i quattro giudicati sardi fossero in relazione osmotica con le principali potenze dell’epoca, il Papato, l’Impero, le Repubbliche Marinare come Genova e Pisa, resta nell’ordine delle cose del medioevo. Una condivisione di sovranità fatta di accordi, politiche matrimoniali, alleanze tra potenze e casate nobili, consueta per l’epoca e inevitabile per un’isola al centro di un mare dominato dalle più grandi potenze. Ciò non deve indurre in equivoco: la Sardegna era perfettamente indipendente e si avviava, con il Regno di Arborea, verso quella unificazione che stava nell’ordine delle geografiche cose.
La lotta che i sardi fecero contro la più grande potenza e marineria dell’epoca, quella dei catalano-aragonesi, andrebbe riconsiderata alla stregua anche di recenti studi operati dalla Fondazione Sardinia.
Fu una lotta durissima che impegnò per intere generazioni i sardi che non si risparmiarono. Tutti i sardi, non solo i “costanti resistenziali” dei monti come erroneamente si è portati a credere, ma anche e soprattutto quelli “malarici” delle pianure, che alla fine, stremati da lunghi decenni di privazioni, morti e sacrifici, si ritrovarono annientati nell’ultima battaglia.
Fu quella, a mio parere, la definitiva perdita di sovranità del popolo sardo, mai più recuperata. Una sconfitta con tanto di onore delle armi, ma definitiva.
Da allora i sardi, sul piano della consapevolezza della loro autodeterminazione, non riuscirono più a ritrovare quell’unità caratterizzante, se non in sporadici momenti, come durante la prima guerra mondiale con le eroiche gesta della Brigata Sassari.
Tuttavia, restava vivo il rapporto con la propria terra, mai venuta meno. La simbiosi tra terra e umani nell’isola era forte e si esplicava mediante una appartenenza che era prevalentemente comunitaria.
Fu, com’è noto, l’avvento delle riforme piemontesi, dall’Editto delle Chiudende del 1822 fino all’abolizione degli usi civici, a trasformare, oltre al regime fondiario, anche il senso comunitario di appartenenza alla propria terra. A ciò si aggiunse che la privatizzazione comportò la quasi totale distruzione del patrimonio boschivo, ridotto, nei primi decenni del ‘900, di quattro quinti rispetto all’originario. Fu la trasformazione, nella percezione delle popolazioni, di un bene come il bosco, che era utile alla loro sopravvivenza e che era uno straordinario produttore di simboli, sacralità e mistero, in un mero giacimento di legname, una catasta di legna misurabile geometricamente e con la cifra del prezzo scarabocchiata sopra.
Questa completa denigrazione dell’utile e del simbolico ha accelerato il distacco del popolo sardo dalla propria terra, lacerando il sentimento comunitario, svilendo “Su Connottu”, disorientando l’immaginario collettivo con le “tancas serradas a muru”.
Quella perdita di sentimento della comunità certamente rappresentò una ulteriore degradazione dell’unità di popolo, introducendo, nei rapporti “segmentari”, per dirla con Emile Durkheim, in una società sempre meno “sostantivista”, per riprendere il concetto di Karl Polany, la mediazione fredda e distaccata del mercato.
Come ho raccontato in “Colpi di Scure e Sensi di Colpa”, la perdita del bosco fu anche l’occasione per indirizzare l’isola verso il sistema mercantile mondiale, che tende per sua natura a creare una suddivisione per aree nella produzione di materie prime. Gli spazi disboscati e la perdita di fertilità della terra sarda la spinse verso una delle sue prime monoculture, quella ovina, con conseguente produzione di formaggio per l’esportazione nelle Americhe, cosa che accentuò la sua dipendenza economica verso una entità esterna.
Nel frattempo arrivò l’unità italiana, con la necessità di fare gli italiani. E gli italiani furono fatti, principalmente, con l’unificazione linguistica, come spiega Roberto Bolognesi nel suo “Le identità linguistiche dei sardi”. Soprattutto in epoca fascista e poi con la scolarizzazione di massa, i sardi furono praticamente espropriati della propria lingua. A questa espropriazione concorse, successivamente, a partire dagli anni ’60, la diffusione del “Grande Fratello” televisivo, un formidabile e tuttora insuperato mezzo di convincimento delle masse popolari.
E questa fu certamente la terza delle grandi degradazioni verso la perdita di concezione e di unità del popolo sardo.
Quindi, riepilogando, la perdita di “autocoscienza” e di consapevolezza dell’unità di popolo, fenomeno che si è certamente dipanato in un arco di tempo lungo con alterne fasi, ha comunque avuto tre momenti di rottura, tre discontinuità peggiorative piuttosto marcate. La perdita definitiva di autonomia a causa della conquista iberica, la privatizzazione delle terre con il conseguente disboscamento nell’800, e infine la cancellazione della lingua sarda dovuta, principalmente, alla scolarizzazione italiana e alla diffusione della televisione.
Tuttavia noi oggi assistiamo ad una quarta e ulteriore perdita di cognizione della nostra consapevolezza di popolo. Ma dato che ci siamo dentro, non è facile distinguerla, occorre molto esercizio.
Mentre (io per primo) siamo concentrati su un etnocentrismo difensivo fondato su una visione oppositiva del rapporto tra Stato italiano e Regione sarda (o Nazione, come Valerio ha detto sottolineando il mio lapsus), nuove e più potenti pressioni e influenze, di natura transnazionale, che vanno sotto il nome ormai confidenziale di “globalizzazione”, invadono la mentalità e la cultura del popolo sardo.
Una invasione culturale che, mal comune e mezzo gaudio, sta impegnando tutti i popoli del mondo per difendere la propria peculiarità culturale.
Mentre ci infastidiamo per zingari e immigrati, abbandoniamo, attratti dalle sirene pubblicitarie, le nostre tradizioni, i nostri cibi, i nostri abiti, la nostra musica, le nostre usanze, per abbracciare quelle “ricche”, occidentali e ammerigane, quelle che ci bombardano dagli anni ’50 con i film di Hollywood e le canzoni pop e rock, e perfino con la letteratura e l’arte. La colonizzazione culturale occidentale di derivazione soprattutto anglo-americana è ormai ad uno stato avanzato del suo percorso ma, dato che ci siamo dentro, non siamo del tutto consapevoli di questa coercizione che, come nel caso della distruzione dei boschi dell’isola, è operata dal mercato.
Mercato dominato dalla grandi multinazionali, le quali rendono quella visione oppositiva del rapporto con l’Italia insufficiente, ormai, a interpretare le dinamiche di cui la Sardegna e il suo popolo ormai fanno parte. La più grande impresa mineraria del mondo, l’anglo-svizzera Glencore, sta occupando una grossa porzione del sud dell’isola con una gigantesca discarica di rifiuti pericolosi; l’americana Alcoa, dopo aver usufruito di lauti incentivi, ha recentemente abbandonato al suo destino operai e fabbrica, una vera e propria “bomba ecologica” da bonificare; la tedesca E.ON, un paio di anni fa, ha accidentalmente riversato la sua marea nera in mare, impestando i litorali di quasi tutto il nord dell’isola.
Le trasformazioni che il mercato capitalistico hanno ingenerato nelle società dei popoli durano da secoli ma hanno avuto negli ultimi decenni una accelerazione improvvisa. La globalizzazione ha veicolato questa metafora pervasiva del mercato, che trasforma ogni valore umano e simbolico in un prezzo, svilendo le culture peculiari e l’identità collettiva delle comunità, perché in contrasto con la visione funzionale a quel tipo di economia moderna, che trasforma e cambia ogni cosa nel nome della produzione e del consumo. Cambia la percezione del valore, non più legata al passato, alla comunità, alla tradizione, ma bensì al presente, alla proprietà, all’individualismo.
Non si appartiene più ad una terra, ad una lingua, ad una cultura, ma sempre di più alle cose, al supermercato, ai soldi. Nella percezione del valore tra comunità di popoli, ciò che conta è la ricchezza.
Il mondo corre, si trasforma velocemente, e la Sardegna con esso.
Eppure, dopo tutto, penso che quell’insieme di componenti sentimentali e culturali del popolo sardo che va sotto il nome di identità, non sia stato ancora del tutto soffocato da questi avvenimenti storici e da questa fase di transizione le cui coordinate non sono ancora del tutto chiare.
Perché, in fin dei conti, sento che c’è ancora dolore, in fondo, da qualche parte.
E se c’è dolore, significa che qualcosa è sopravvissuto.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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