Dopo la nuova strage di migranti i pensatori governativi (carro sul quale salgono a frotte anche miei colleghi giornalisti) mettono le mani avanti e dicono con l’aria di quelli che sulle dinamiche dei sentimenti di massa ne sanno umbé: “Ora vedrete che circoleranno altre foto di bambini morti sulle spiaggia e ci sarà qualche ondeggiamento di emozioni come l’altra volta”. Danno cioè dei coglioni a tutti i loro milioni di seguaci che si formano un’opinione su una foto e non su un ragionamento. Io invece non do del coglione a nessuno, ma concordo sul fatto che gli orientamenti basati su fragili sensazioni sono altrettanto fragili e quindi piuttosto effimeri. Ma comunque non credo che per ora questa ondata di “fuori i negri” stia per concludersi. Lo vedo anche nella mia città, dove persino i mendicanti di colore hanno percepito la maggiore ostilità benedetta dal Governo e sono più umili, discreti, timorosi; mentre hanno acquisito una certa aggressiva sfacciataggine quelli di razza bianca, soprattutto gli italiani, resi sicuri da un esecutivo che finalmente li difende dalla concorrenza extracomunitaria e che si avvia a difenderli anche da quella comunitaria. In quanto a metterli in condizione di non dovere chiedere l’elemosina, calma, un passo alla volta, dopo tanti anni di dittatura comunista non è che in un mese possiamo fare tutto. E mi chiedo dove sono i razzisti nella mia città. Eppure ci sono. Io non posso dire che non ci sono soltanto perché in certi giorni magici non ne vedo neppure uno. Io non conosco personalmente, almeno credo, neppure un pedofilo o un boss mafioso. Eppure so che esistono. Quindi i razzisti ci sono, ci devono essere. Anche in Sardegna. Anche a Sassari. Le infamità rese su Facebook in un italiano approssimativo dai guardiani della nostra italianità le ho tutti i giorni sotto gli occhi. Poi faccio anche le mie distinzioni. Per la maggior parte sono disgraziati che hanno bisogno di uno sfogatoio per le loro disgrazie. E un po’ li compatisco e un po’ li temo, come farei con un teppista che butta nella violenza la sua esistenza disperata: tutta la mia comprensione, ma cerco di evitarlo. I pochi altri, quelli che questa disperazione la sfruttano e la alimentano per guadagnarsi cinque anni di lauto stipendio, ecco quelli mi stanno proprio sui coglioni. Però ci sono giorni in cui – nel mio mondo piccolo chiuso tra Porta Sant’Antonio e piazza Castello, tra Porta Utzeri e Porta Macello – mi chiedo: ma dove sono questi razzisti? Uno di questi giorni incantanti fu l’estate scorsa. Ero a San Donato, che è uno dei cuori di quei quartieri. Con Tore Sanna dovevamo parlare di Trapadè chiamati dal circolo La Lucciola, un’istituzione. Trapadè è una maschera sassarese. Come Pulcinella a Napoli. Solo che lui è esistito davvero. Era un eroe della prima guerra, rovinato a un braccio dal piombo nemico. Quando è tornato a Sassari non riusciva più a fare il fabbro. Disperato, ha preso a bere ed è morto in ospizio, dopo una vita trascorsa con la patente di arguta e temibile macchietta, vittima del dileggio al quale si opponeva feroce e beffardo mettendo a nudo le vergogne dei dileggiatori. Tore ne ha ricostruito la vita e ogni tanto va in giro a parlarne, talvolta chiamandomi ad accompagnarlo. Era razzismo, pure quello? Direi di no. Era alle volte cattiveria pura, ma quasi sempre era “cionfra”, una categoria peculiare della cultura popolare sassarese molto difficile da fare capire in poche parole a chi non è di Sassari, mentre è inutile con chi è di Sassari. Per intenderci, una faccenda vagamente simile alla beffa toscana, della quale forse è erede per via della dominazione pisana. Il razzismo è diverso. Il razzismo presuppone ignoranza, paura del diverso e la creazione di un immaginario colpevole dei propri mali. Ma quel giorno dell’estate scorsa, in un centro storico zeppo di immigrati extracomunitari, mi chiedevo: dove sono i razzisti? A esempio in via Lamarmora, dove un nero di due metri stava sistemando uno stenditoio in piena facciata, tra le porte di due case al pianterreno – antichi sottani poveramente ristrutturati -, insieme a un sassarese mingherlino in canottiera rossa. Sono passato mentre scalpellavano per murare le gaffe di ferro alle quali agganciare il filo da stendere e ho chiesto ridendo al tipetto in canottiera -Ma inoghi li guardhi si n’affutini? – alludendo alla palese violazione dei regolamenti comunali sul decoro delle facciate. -E-tandu-affutidinni-puru-tu – mi ha risposto il nero, chiedendo conto con un’occhiata al suo amico bianco della correttezza lessicale e di pronuncia della frase appena compitata. -E’ ancora imparendi – mi ha spiegato il sassarese scuotendo severo la testa verso l’altro e aggiungendo -Biadu e te chi no debi farazzi a Pratamona pa abbrunzati. E giù a ridere tutti e due insieme alle due mogli, la nera e la bianca, che assistevano ai lavori discutendo l’altezza delle gaffe per lo stenditoio comune tra le loro due case. E la sassarese mi ha spiegato indicando la valchiria bruna -E chisthi so mannitti e li gaffi li punaristhiani puru in la cabirthuria. Poi, alla grande africana che rideva illuminando con lo splendore dei suoi denti bianchissimi il vecchio arco di Corte Larga -Noi semmu basciuttini! A lu voi cumprindì? E me ne sono sceso verso La Lucciola, a parlare di Trapadè, con il cuore leggero leggero, felice della mia città e chiedendomi -Ma dove cazzo sono questi razzisti di cui si parla tanto? E sospingevo giù la risposta che ogni tanto tentava di risalirmi dallo stomaco perché ero così contento che non avevo nessuna voglia di vomitare la verità, quel giorno.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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