Ti capitano quelle esperienze che, purtroppo, non riuscirai mai a dimenticare manco dovessi campare un secolo. E se anche in seguito l’esistenza ti riserva delle vicende abbastanza forti, sai benissimo che quel file non verrà mai sovrascritto da nessun altro. Lo metterai da parte, in un cantuccio della memoria, fino a quando un dettaglio apparentemente irrilevante non lo tirerà fuori e te lo sbatterà davanti agli occhi con la violenza di una sopraffazione. Leggevo La Nuova Sardegna stamattina, davanti ad un caffè: “Ieri mattina in tribunale la sofferta e dolorosa rievocazione di quell’angosciante periodo […]”.
Quel file è drammaticamente tornato in superficie.
Ero una giovanissima precaria a quel tempo ed insegnavo nella scuola elementare di un imprecisato paesino sardo. Una di quelle supplenti che difettava enormemente di esperienza metodologica e quasi a digiuno di didattica, ma con un carniere colmo di entusiasmo e chimere da inseguire.
Avevo l’abitudine di arrivare a scuola con notevole anticipo e allora approfittavo di quel lasso di tempo libero per bere un caffè e fumare una sigaretta prima di entrare in classe, anche se poi i bambini, quando salutavano il mio ingresso in aula con un bacio, mi dicevano: “Che odore di sigaretta, mae’!”
Stavo bevendo un caffè anche quel giorno, quando mi si era avvicinata una collega con un’espressione stranamente preoccupata. Dico stranamente perché, nonostante fosse un’ottima insegnante, competente ed equilibrata, forse i numerosi anni di servizio l’avevano resa troppo imperturbabile, emotivamente quasi anestetizzata. Trattava bene i suoi alunni, ma non lasciava che né loro né le vicende articolate delle loro famiglie invadessero il suo orario extrascolastico.
– Ti disturbo? – mi aveva detto col suo tono sempre garbato e gentile. Senza aspettare la mia risposta aveva aggiunto: – C’è qualcosa che non mi convince, guarda un po’ il disegno di questa mia alunna –
Insieme a quel foglio, tirato fuori dalla cartellina, mi era arrivato un cazzotto nello stomaco.
Non occorre insegnare da millemila anni per accorgersi che i colori esclusivamente scuri non presagiscono nulla di buono. Non è necessario essere psicologici per intuire che da una casa nera, con infinite finestre da cui sporgono volti esclusivamente maschili, emerge un mondo minaccioso. Non serve grande intuizione per comprendere che ogni disegno è espressione del bambino che lo esegue e che in quel foglio ti sta rivelando parte del suo mondo e di se stesso.
– Parlane immediatamente col Dirigente – le avevo intimato, pur con la consapevolezza che l’avrebbe fatto in ogni caso.
Erano seguiti colloqui con assistenti sociali, incontri con psicologi, contatti con le forze dell’ordine fino al giorno in cui tutte queste squadre si erano coordinate per sottrarla ai luridi istinti di un padre che abusava sessualmente della bambina, insieme a non so quanti dei suoi amici. Una bimbetta di 6 anni che avrebbe potuto suscitare qualsiasi istinto, tranne quello sessuale.
I dettagli logistici della vicenda si sono annacquati col tempo, ma rammento che, prima che il padre la ritirasse all’uscita, erano venute a scuola a prelevarla due assistenti sociali, una psicologa ed una poliziotta. Credo che, contestualmente, fosse scattato l’ordine di cattura per quel lurido genitore. Ero alla finestra in quel momento, col vociare dei miei alunni alle spalle. Una delle quattro donne le aveva portato un lecca-lecca più grande del suo visino e lei lo custodiva brandendolo come un pugnale. La poliziotta la teneva amorevolmente in braccio e le parlava sorridente mentre la bimba si guardava intorno.
I suoi non erano occhi spaventati, credo capisse stava succedendo qualcosa di grande, ma non trapelava paura dallo sguardo. Erano occhi smarriti, ma anche rassegnati. Occhi di chi pensa “accada quel che accada”. Di chi non chiede nemmeno più, perché abituato alla sottomissione. Di chi non fa neanche un capriccio perché sa che resterà inascoltato. Occhi specchio di un blackout emotivo. E’ salita in auto e, docile, se n’è andata. Per qualche giorno non è venuta a scuola, poi la mia supplenza è terminata.
Non so che fine abbia fatto Anna, so solo che da allora quando sento o leggo notizie che riportano analoghi fatti di cronaca, provo molto più che rabbia, schifo e indignazione. Perché io ho visto come sono gli occhi di una bambina abusata sessualmente. E avrei voluto non vederli mai…
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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