Non solo i figli di Jobs ma anche i figli di Bill Gates, i figli di Palihapitiya ex dirigente di Facebook dal 2005 al 2011 e i figli di altri pezzi che contano nella Silicon Valley. Tutti hanno qualcosa in comune: cioè dei padri che proibiscono loro di abusare della tecnologia, dei social, dei videogame.
Proprio loro che lavorano, o lavoravano, a quelle strutture di algoritmi create per lo svago altrui. I fabbricanti di desideri, da qualche tempo, ci scandiscono la giornata: al mattino mentre scende il caffè (il caffè ormai non sale più, scende), controlliamo il tracker watch che ha monitorato le nostre fasi REM e già ha contato quei 10-20 passi che separano il sonno dalla colazione. Una lettura veloce alle notifiche prodotte durante il nostro sonno profondo. Magari leggiamo in bagno e se lo smartphone cade nel wc, la soluzione è sempre nel device (in un altro più asciutto). Spegni, togli tutte le parti smontabili e immergilo nel riso, Aranzulla ti benedirà. È ora di lavorare e consultare l’agenda digitale che a questo giro si è salvato dal bagno. Ci sono i promemoria che ricordano le riunioni, ma un giro su Facebook e Whatsapp si incastra bene tra un appuntamento e l’altro e poi ancora in pausa pranzo e ancora nel tragitto dal lavoro a casa e ancora ancora in palestra tra una serie di squat e una serie di pull down. Mentre il GPS al polso ha contato il minimo sindacale dei passi quotidiani.
Loro sapevano tutto questo? I creatori di desideri (se non addirittura creatori di necessità), intendo, sapevano tutto questo?
Pare di sì. Ma senza spingerci nel fantastico mondo del complotto e del controllo mentale. Semplicemente sapevano e sanno che ogni oggetto ha due facce: una buona e utile e un’altra più subdola. Ma dipende da noi e dal nostro utilizzo far venire fuori la parte positiva, altrimenti il rischio è la possibile dipendenza soprattutto nelle menti più giovani e plasmabili.
Loro sanno che una eventuale “fidelizzazione” prima si verifica e meglio attecchisce. Entrare nell’uso quotidiano, porta ad abitudini difficili da modificare e gli screenager, sono un invitante terreno da coltivare. Eppure i figli di Bill Gates, proprio per scelta dei genitori, hanno potuto familiarizzare con la tecnologia solo a partire dai 14 anni mentre l’età media dei bambini americani che possedeva uno smartphone, fino a pochi anni fa, era di 10 anni.
Anche Steve Jobs in un’intervista del 2011 al NYT, quando Nick Bilton gli chiese se i figli fossero entusiasti del nuovo iPad, rispose “Non l’hanno usato, in casa limitiamo fortemente l’utilizzo della tecnologia” Forse anche per questo proprio nella Silicon Valley esistono alcune scuole con tendenza low-tech
L’indigestione mediatica, così spiega Manfred Spitzer, neuropsichiatra tedesco, nel suo libro Demenza Digitale, porta a difficoltà nell’apprendimento, diminuisce le capacità di socializzazione e di empatia e rischia di portare anche a gravi casi di depressione. Il professor Spitzer mette in dubbio anche l’apprendimento attraverso il solo computer e rilancia due aspetti che in questi ultimi anni sono stati rivalutati: evidenzia la criticità del tanto osannato multitasking (il risultato è la distrattenzione) e riconosce che il metodo di scrittura a mano non deve essere visto come un metodo sorpassato. Anzi.
Vale la regola che il problema non è intrinseco all’oggetto ma dipende dall’uso che se ne fa.
Benedetta sia allora la dieta digitale, perché se è vero che in media passiamo due ore al giorno sui social, perlomeno cerchiamo di rendere costruttivo quel tempo e di selezionare ciò che c’è di buono (come i post di sardegnablogger ad esempio) senza soffermarci invece su contenuti lobotomizzanti. Altrimenti possiamo ammettere che gli anni di Colpo Grosso e di Drive In non ci hanno insegnato nulla.
Sparo pixel alla rinfusa, del resto sono nata sotto un palindromo (17-1-71), non potevo che essere tutto e il contrario di tutto. Su una cosa però non mi contraddico «Quando mangio, bevo acqua. Quando bevo, bevo vino» (cit. un alpino)
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