Circa un anno fa vissi con sgomento l’ennesima morte di un bambino “dimenticato” dai genitori sul seggiolino dell’auto. Con altrettanto sgomento mi venne da pensare all’inferno che stavano vivendo in quelle ore, e per chissà quanto tempo ancora, la madre e il padre. Inferno è la parola che mi viene in mente per prima, per come evoca tutte insieme l’estrema assenza di giustizia, il dolore più straziante, l’angoscia, l’impossibilità di capirci qualcosa, l’impossibilità di intravvedere un finale diverso.
Vissi con sgomento anche l’ennesimo scatenarsi di succhi gastrici contro la madre, gli schizzi di vomito e rabbia animalesca riversati sul suo profilo social da perfetti sconosciuti sceriffi, in modo da rendere quell’inferno, già abbastanza orribile, anche un luogo putrido.
Ho un’idea, su certe tragedie. Siamo tutti coinvolti in un’unica, immensa sindrome, a cui non so dare un nome. Di solito si parla di frenesia, di disumanizzazione del quotidiano, di alienazione dovuta al bisogno di denaro e dunque di ritmi forsennati per procurarselo. Non insisto. L’importante è che ci siamo capiti. Però la sindrome c’è. La sindrome, lo sapete, è un insieme di sintomi che si presentano all’interno di un quadro, magari contribuendo a delinearlo; sintomi che interessano un essere vivente in un determinato periodo della sua esistenza, più o meno lungo. In questo caso l’essere vivente è la società di cui siamo membri, e i sintomi sono quelli che ho detto sopra, più molti altri: velocità, stress, alienazione, bambini dimenticati, mancanza di tempo libero ecc. Di solito il nostro modo di concepire i problemi e in particolare le malattie, tende a concentrarsi sui sintomi. Questo avviene perché il nostro schema mentale preferito ci fa pensare al mondo come a un susseguirsi di cause e di effetti, che si muovono nella direzione del tempo lungo percorsi “a freccia”, puntati dritti verso il futuro. Non solo: oltre a pensare ai fenomeni come a sequenze di cause ed effetti, valutiamo gli effetti e le sequenze in termini di “giusto” e “sbagliato” (bianco o nero), perdendo di vista le sfumature. Il Novecento è servito, tra le altre cose, a mettere in discussione questo modo di pensare, proponendo un’idea alternativa: la vita (quella delle cellule come quella delle foreste) segue cicli e non segmenti, percorsi circolari e non frecce. Inoltre essa è caratterizzata da una complessità di fondo, per cui nessun sistema vivente è mai riducibile alla somma delle sue parti, ma è sempre qualcosa di più. Da queste due idee ne deriva un’altra: può essere utile, ma va fatto con estrema cura, scomporre i fenomeni della vita in parti separate per poterli studiare e curare. Senza mai dimenticare che non abbiamo a che fare con automatismi programmati nel dettaglio ma con organismi in parte imprevedibili, proprio perché vivi.
Ma il senso comune non ha gli stessi tempi del sapere accademico, pur facendo parte della stessa società, e le idee hanno bisogno di tempo per essere digerite. Per questo motivo le cose continuano a sembrare tutto sommato semplici (chi dei nostri vicini di scompartimento sul treno, o nella sala d’attesa del medico, non ha una soluzione per l’immigrazione, l’inquinamento, il terrorismo, le tasse ecc?). Talmente semplici che di fronte a un problema (in questo caso, il black-out che porta un genitore a dimenticare il figlio sul seggiolino), oltre a processare una madre perché “così non si fa”, non si mette mai in discussione il contesto della sindrome ma si isola il sintomo (il black-out) e si cerca una pezza per rimediare. La pezza, a parte la morte della madre auspicata da alcuni, sembrerebbe essere un dispositivo automatico da installare su ogni seggiolino, che “ricorda” al genitore (a ogni genitore) di avere un figlio sul sedile posteriore dell’auto. Questo dispositivo potrebbe salvare in futuro dei bambini che rischiano di morire per il caldo dell’abitacolo. E in questo sarebbe utile. Ma non sposta di un millimetro il problema generale: perché dimentichiamo i figli. Paradossalmente, rischia addirittura di peggiorarlo, perché delegando l’attenzione per quel figlio a un dispositivo che, come ci alziamo dal sedile, suona, è come se liberassimo una parte del nostro cervello, della nostra attenzione, della nostra coscienza, che verrà sicuramente occupata ben presto da qualche altra attività.
Ecco, forse ho trovato un altro termine utile per dare un nome alla sindrome generale che manifestiamo: automatismo. Automa è un termine di origine greca, che indica un dispositivo, un meccanismo che imita le sembianze o i comportamenti di un essere animato, ma che è artificiale e dunque programmato. Un automa non pensa, perché tutto il pensiero necessario a farlo funzionare sta fuori di lui, prima di lui, nel suo creatore. Allo stesso modo un dispositivo automatico serve a eliminare la necessità di pensare, perché fa quello che va fatto e lo fa nel momento in cui va fatto (se funziona).
Tutto questo discorso si collega a un’altra notizia che ho trovato oggi sui giornali. Una donna giovane, con un importante ruolo sociale, è stata trovata morta nel suo appartamento, in una delle tante città della provincia italiana. Era morta da un mese. E tutti intorno a lei, sono andati avanti per un mese senza accorgersi che era morta. Tutto molto automatico.
L’idea che mi sono fatto è che viviamo in un mondo in cui è facilissimo muoversi e agire, talmente facile che sempre più spesso non serve neanche pensare a quello che si fa, lo si fa e basta. Raggiungiamo posti che non conosciamo, facciamo foto meravigliose senza sapere cosa sia un diaframma, compriamo e mangiamo prodotti già sbucciati o conditi con olio e sale, troviamo le cose che ci interessano su google senza averle cercate, preveniamo malattie che non avremo mai, andiamo in guerra contro nemici che non ci hanno mai attaccato (ma potrebbero farlo!), paghiamo tasse su ricavi aziendali che non avremo e, probabilmente, avremo un cicalino che ci ricorda di avere un figlio.
Non me la prendo col cicalino, specialmente se penso ai bambini che potevano essere salvati e a quelli che lo saranno.
Ho solo la sensazione che sia utile ogni tanto fermarsi e chiedersi che senso ha la velocità. Anche solo per vedere le cose da un’altra angolazione, che è sempre utile, e non si sa mai. Altrimenti ogni automatismo pensato per eliminare gli errori, e preso per buono senza averci riflettuto almeno un po’, servirà più che altro per fare spazio ad altri automatismi e ad altra velocità.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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