La festa dell’Europa, 9 maggio, “celebra la pace e l’unità in Europa”, così è scritto sula pagina dedicata alla ricorrenza sul sito ufficiale dell’UE. E come dubitarne, del resto il primo ministro britannico David Cameron , più o meno esplicitamente, ha dichiarato che in caso di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea tornerebbe il rischio di guerra. Tuttavia, se qualcuno dovesse, più che lecitamente, nutrire riserve sulla serietà del leader tory, giunge in soccorso il Comitato per il Nobel norvegese, il quale nel 2012 assegna il riconoscimento per la pace proprio all’UE. Certo, sarebbe altrettanto comprensibile diffidare della serietà del Premio Nobel, perlomeno quello della pace, considerandone il conferimento a Henry Kissinger (il diplomatico vietnamita Le Duc Tho, cui venne assegnato congiuntamente nel 1973, ebbe il buon gusto di rifiutarlo) e a Obama.
Per tornare alla festa dell’Europa, la data scelta, il 9 maggio, è l’anniversario della cosiddetta dichiarazione di Schuman, con la quale l’allora ministro degli esteri francese proponeva la creazione di quella che, di lì a poco, sarebbe divenuta la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio). Chi scrive, da incallito trinariciuto, il 9 maggio preferisce rendere onore alla vitoria dell’Armata rossa, in quella data, infatti, la Germania nazista si arrendeva incondizionatamente all’Unione Sovietica. Si dirà, che cosa c’entra? C’entra eccome, specie se si da un’occhiata sommaria alla biografia di Robert Scuman, un’occhiata che vada oltre la retorica propagandistica sui padri fondatori dell’Europa generosamente profusa dai media in questi giorni.
Robert Schuman, lungi dall’essere la figura immacolata e idealista dipinta dall’agiografia europeista, fu membro di non poco conto del primo governo del maresciallo Pétain, votò per il conferimento dei pieni poteri a quest’ultimo il 10 luglio del 1940, ebbe dunque una responsabilità non trascurabile nella nascita del cosiddetto Stato Francese, ossia del regime collaborazionista di Vichy, e quindi in quella tragedia europea che nella dichiarazione del 1950 si affermava di voler superare. Per carità, non va omesso che fu anche il primo parlamentare francese a venire imprigionato dai nazisti, ma vale anche per la sua freddezza, spinta sino alla mancata partecipazione, rispetto alla resistenza. Di tutto ciò nel maquillage propagandistico della festa dell’Europa non ve traccia.
Così come non si fa parola della spregiudicatezza di un altro padre fondatore dell’Europa, Jean Monnet, il quale fece fortuna negli Stati Uniti ai tempi del proibizionismo, rifiutò nel 1940 di aderire alla Francia libera di De Gaulle, fu sempre un fedele esecutore degli interessi USA, e proprio su pressione degli Stati Uniti lanciò l’idea della CECA, ispirando la già citata dichiarazione del 1950, con buona pace di chi ritiene l’UE l’embrione di un’entità anche solo minimamente indipendente dagli interessi atlantici. Dichiarazione, per altro, non certo redatta in un clima di trasparenza, bensì tenendone all’oscuro gli altri ministri del governo francese, ma non il cancelliere della Germania federale Konrad Adenauer. Che dire poi della partecipazione di Maurice Lagrange, il cui ruolo nella politica antisemita del regime di Vichy è documentato, alla redazione del trattato che darà origine alla CECA?
A stupire, però, sono l’adesione e la fascinazione di buona parte della sinistra europea per un simile europeismo, adesione e fascinazione pervicacemente immuni anche al più blando senso critico, e che tuttavia vantano una lunga storia. Basti pensare che la formula “Stati Uniti d’Europa, ripetuta come un mantra insieme al “ci vuole più Europa”, in occasione di ogni crisi attraversata dall’UE, non è esattamente una novità: vi fecero già ricorso illustri esponenti della socialdemocrazia, come gli austro-marxisti Renner e Bauer, nonché il “papa rosso” Karl Kautsky, e persino Trotsky. Ciò nondimeno, la sinistra può anche rivendicare una tradizione di severa critica a tale visione. Già nel 1915 Lenin giudicava la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa sbagliata, ritenendo che in regime capitalista avrebbe significato esclusivamente “l’organizzazione della reazione”; ancor prima, nel 1911, Rosa Luxemburg usò parole ancora più dure, definendo l’europeismo “un aborto dell’imperialismo”.
Ecco, sarebbe il caso, a sinistra, di dare una ripassata a questa tradizione, sempre che non si voglia lasciare il monopolio della critica all’UE alle destre più impresentabili, e continuare a baloccarsi nella celebrazione apologetica di figure che, nel migliore dei casi, appartenevano agli ambienti di centrodestra, non senza venature cattolico-reazionarie, e nel peggiore, intrattennero rapporti ambigui, a voler essere eufemistici, col collaborazionismo. Ma forse è ormai troppo tardi.
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