Nella bacheca di un amico, attento ai temi della comunicazione, ieri ho trovato e condiviso un mini sondaggio: se foste nella posizione di farlo e doveste deciderlo per migliorare la qualità della democrazia, abolireste o limitereste l’uso dei social network?
Leggerò con curiosità i risultati che arriveranno tra 6 giorni. Per il momento mi limito ad apprezzare lo scambio di commenti e gli spunti che ne vengono fuori.
Aggiungendone alcuni.
La domanda sembra un po’ forzata poiché presuppone che limitare o abolire i social faccia bene alla democrazia, e ci chiede solo se saremmo disposti a farlo.
Messa in questi termini, si evita una domanda forse ancora più interessante: i social, fanno male alla democrazia?
Il medium determina il messaggio, ricorda qualcuno, citando McLuhan e adombrando una colpa dei social nel peggiorare comunicazione e democrazia. Il fatto è che McLuhan, morto nel 1980, aveva in mente soprattutto stampa, cinema, televisione, radio, libri. Ma il Web non è un medium di quel tipo, semmai è un contesto di media, un ipermedium basato sull’interazione in tempo reale, su cicli ininterrotti di feedback e per cui vale sicuramente anche l’inverso: il messaggio costringe il medium a continui adattamenti.
Utili a questo proposito le riflessioni di Danilo Dolci nel suo La legge come germe musicale , (Lacaita Ed., 1993), in cui i mezzi di comunicazione di massa vengono ri-etichettati come “mezzi di trasmissione di massa”, poiché veicolano i messaggi in modo unidirezionale, da un autore a un pubblico, da un mittente a un ricevente, calando modelli dall’alto e lasciando al tempo e a una società senza internet, il compito eventuale di restituire eventuali feedback.
Con la rete, e con i social, la faccenda è diversa per la velocità e l’immediatezza dell’interazione.
Forse è questo che spaventa molti, oggi: una grande massa di utenti (gli stessi che in altri contesti si fanno popolo e elettorato) che in zero secondi possono scegliere, giudicare, rispondere, provocare, arricchire, insultare, minacciare, mentire, approfondire, ripetere, confutare, citare, distorcere, capire, collegare, strumentalizzare, fraintendere, imparare: in una parola, usare il linguaggio in modo pieno, con tutte le sue conseguenze.
In un bel testo sui sussulti della narrativa italiana (New Italian Epic, Einaudi, 2009), il collettivo Wu Ming ragiona sul Nuovo ordine narrativo che caratterizza l’epoca attuale, dominata dallo storytelling in qualsiasi campo e fa il punto sulla sovrabbondanza di dati che caratterizza l’era digitale.
C’è troppa informazione in giro, secondo molti critici. Ma, troppa per cosa? si chiedono i Wu Ming? Per fare sintesi? Per poter dire di controllare tutto? Non sarà che “il diluvio dei saperi ha messo a nudo un’antica verità e cioè che le domande e le incertezze aumentano all’aumentare della conoscenza?”.
Sarà che la sovrabbondanza di dati, la velocità della loro diffusione e l’immediatezza della loro disponibilità, hanno solo messo in luce una carenza di strumenti cognitivi, su cui magari interrogarsi e lavorare, evitando bavagli e censure? Sarà che ancora ragioniamo sulla rete come se fossimo immersi in un’immensa ma statica biblioteca? Non sarà che dobbiamo iniziare a pensare al Web, e ai social in particolare, come a un luogo che è sia super-biblioteca che super-bar? E che non possiamo pretendere di stare su Facebook come se fossimo in un megabar, quando vogliamo parlare, e in una megabiblioteca quando dobbiamo rispondere alle castronerie suscitate dai nostri dotti interventi?
Una delle cose, infatti, che avviene dentro i social e grazie a i social, è l’accorciarsi delle distanze, in tutti i sensi, tra esperti e novizi, tra tecnici e profani. Cosa che sembra causare disagio soprattutto in chi non ha più l’accesso esclusivo a certe informazioni e non ha strumenti sufficienti per spiegarsi a fondo, così come dall’altra parte mancano gli strumenti per capire a fondo.
La tendenza ad affrontare ogni situazione in termini di polarità opposte (tipo guelfi e ghibellini), fa emergere nei sostenitori di chi ha perso l’esclusiva sui dati, strani suggerimenti di scorciatoie, tipo limitare l’accesso ai social e addirittura il diritto di voto a chi si dimostra ignorante: una reazione originata da una specie di paura del vuoto, o dell’ignoto.
Il tutto ha dei precedenti gustosi. Tale Geronimo Squarciafico (citato da Wu Ming a pag. 155), nel 1477 si lamentava dell’invenzione della stampa e della aumentata disponibilità di libri in quanto la loro abbondanza “rende gli uomini meno studiosi, distrugge la memoria e indebolisce la mente sollevandola da un duro lavoro”. Sulle pagine di Rinascita, nel 1951, Nilde Jotti denunciava che “decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono fatti collegati”. Paura per la troppa informazione, nel primo caso, per un nuovo mezzo, i fumetti, nel secondo. Cose già sentite a proposito del cinema, della televisione, della macchina da scrivere, e oggi dei social.
È evidente che le reazioni scomposte, il desiderio di tornare indietro, la tentazione di limitare libertà di espressione e di voto (stranamente frequente in certi settori della disorientata sinistra odierna), tradiscano una sorta di panico epistemologico per un’incertezza che non si è capaci di dominare, favorita, paradossalmente, proprio dall’abbondanza di informazione e di canali per la sua circolazione. Una paura della complessità che cresce, che suggerisce, nei più spaventati, pericolosi ripiegamenti all’indietro nel disperato tentativo di semplificare il mondo e far tornare i conti, a vantaggio di narrazioni mainstream già sperimentate e affidabili, e a dispetto delle molte nicchie che, proprio grazie al web, ottengono finalmente una visibilità, un respiro e delle possibilità di sopravvivenza prima neanche ipotizzabili.
Mi vengono in mente due immagini che voglio buttare lì, suggerite da questa tendenza all’omologazione forzata che sembra offrirsi, specie in ambienti progressisti, come unica soluzione al caos montante. La prima è il braccio di ferro tra i Benetton e i Mapuche, tema che meriterebbe altra attenzione ma che è venuto a galla solo in occasione del crollo del Ponte Morandi, per tornare altrettanto velocemente nel dimenticatoio.
L’altra riguarda Pasolini, ricordato da Dolci nel libro che ho citato sopra. In una critica ad un articolo di Franco Fortini sulle definizioni e le fasi evolutive del fascismo, Pasolini segnalava, usando come sintomo e simbolo la scomparsa delle lucciole, la progressiva scomparsa dell’Italia contadina.
Questa era stata fagocitata strumentalmente dal regime di Mussolini e dalla sua continuazione democristiana, e definitivamente annientata dal nuovo fascismo dell’industrializzazione e del consumismo, rispetto a cui lo stesso potere democristiano era ridotto a una maschera per nascondere il nulla della politica.
Contro il potere omologante del nuovo fascismo, neanche un’eventuale ascesa al Governo del “paese comunista” latente in Italia avrebbe potuto ormai nulla. Nulla contro l’omologazione forzata, nulla contro la narrazione favorevole al progresso che vedeva di buon occhio il tramonto della civiltà contadina con tutte le sue nicchie e sfaccettature. Scriveva Pasolini, poco prima di morire: “Darei l’intera Montedison, per una lucciola”.
Mi viene in mente che la sinistra, in mancanza di idee migliori, potrebbe provare a ripartire da qui.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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