In anteprima nazionale ieri sera è stato proiettato a Tempio, sua città d’adozione, il Film documentario su De André, diretto da Gianfranco Cabiddu, “Faber in Sardegna”. Produzione e regia s’erano dati la missione di intercettare un De André inedito, che andasse oltre l’immagine patinata e agiografica consacrata in Sardegna e in Italia dopo la sua morte. Se questa era la mission, temo sia venuta meno. Cabiddu è bravo, i suoi lavori apprezzabili. Eccellenti la fotografia e le riprese di una natura di una bellezza arrogante. Lì si è fermato. Confidavamo potesse fare un lavoro di esegesi, di ricerca di nuove fonti, di analisi dei testi che affondano le radici nella terra di Sardegna. Che indagasse questa simbiosi dell’uomo e dell’artista con l’ambiente naturale e antropologico di quest’angolo di Gallura. Speravamo ci mettesse tanto del suo, che leggesse l’Agnata con occhio insolito, con piglio investigativo, che avesse provato a sfondare il muro di quanti fino ad oggi hanno detto e scritto. Confidavamo scavasse oltre l’immagine beatificata, che un’azzeccata campagna di marketing ha costruito dell’uomo e dell’artista De André. Ci si attendeva che questo lavoro, finanziato con fondi pubblici, andasse oltre la lettura dell’Agnata “buen retiro” che i tanti interpreti hanno provato a darle, fermandosi sempre alla dura scorza, restando alla superficie e alle facili letture. Auspicavamo s’indagasse su cosa incatenasse l’uomo, il musicista, il poeta, il contadino De André a l’Agnata, quantunque abbia subìto e sofferto il più ignobile crimine che si possa patire, come il suo sequestro e quello della moglie. Speravamo in una lettura propria, tutta del regista, poiché abbiamo sempre pensato che il legame con la Gallura di De André non fosse dovuto solo al bel giardino “Paghera” e alle mucche al pascolo. Cosa, allora, tiene legati l’artista e l’uomo a questa terra? Perché il punto è questo. De André non era un turista da una botta all’anno, che assunse la Sardegna come placebo per placare qualche paura. Piuttosto si potrebbe pensare che il lavoro manuale e la fatica quotidiana che egli ricerca -bella l’immagine con le mani sporche affondate nella terra nera- fonte ancestrale d’ispirazione, lo potessero guidare verso l’escatologia contadina, spirito naturale dell’uomo. È questo che cercava? Lo spirito naturale dell’uomo? Ovvero, l’Agnata per riparare dal mondo de La Peste, metafora del male universale? L’Agnata che racchiude nel piccolo cimitero di Santu Bachis, come nella collina di Spoon River, le menzogne del mondo, i morti che parlano la voce del vento che cala dalle alture di Balascia. I morti che parlano la lingua della verità, non avendo più nulla da perdere. O forse l’Agnata è il suo Macondo? Alcuni lo dicono.
È certo che dall’alambicco della Zirichiltaggia distilla emozioni captate da un mondo oggi scomparso, dove in quella cussorgia ancora continuano e “volano le lucciole”. De André indaga questi aspetti, li vive nelle feste campestri e negli stazzi del vicinato, si immerge negli affreschi della gente che trasmette i secoli della loro storia con i gesti. Egli ne intende la parlata, la sintassi dei pensieri, l’orizzonte delle riflessioni. De André vuole carpirne i sentimenti, le emozioni e le passioni, che come goccia nella pietra, ne ha intagliato le coscienze, riflesso la cultura.
Indirizzare qualche iniziativa della “Fondazione De André” e qualche soldo dell’assessorato alla cultura del comune di Tempio per studiare “questo” De André, ci aiuterebbe qualche volta a non rendere banale e forse più leggibile la “sua scelta di vita” in Gallura.
Laureato a Cagliari in Giurisprudenza. Ha frequentato masters in direzione aziendale e sui sistemi gestionali delle pubbliche amministrazioni. Già impiegato in un ente di ricerca in agricoltura, opera nel settore della consulenza di Direzione. Svolge studi economico-sociali per conto delle P.A. Gavino Minutti era anche suo nonno, e il nonno di suo nonno, del 1797, tutti nati a Calangianus,
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