Distribuivano mazzette a funzionari corrotti per acquistare cadaveri dagli obitori, corpi umani su cui compiere misteriosi esperimenti scientifici lavorando su tessuti infetti da bacilli mortali. Corpi umani senza nome, sezionati per soddisfare la curiosità di uno scienziato incurante del suo sconsiderato azzardo: aver messo a repentaglio, con questi metodi oscuri, la sicurezza pubblica. Chissà come si sarebbero scatenati i siti complottisti e i politici populisti alla ricerca del nemico da dare in pasto all’opinione pubblica, se l’una e l’altra categoria avessero scoperto – magari da un servizio del Tg3 – le macabre pratiche dell’epidemiologo svizzero Alexandre Yersin e del suo rivale e collega giapponese Shiba Kitasato. È solo una suggestione, perché i due scienziati sono vissuti un secolo fa e allora non esistevano Facebook né Whatsapp per dare sfogo ai professionisti della bufala. Yersin e Kitasato, nel 1894, si trovavano a Hong Kong, nel mezzo di una spaventosa epidemia di peste nera. Tra loro c’era competizione, poiché erano considerati i più grandi specialisti di quel ramo della medicina. La peste nera era da secoli il più spaventoso flagello dell’umanità. Quella del Trecento, raccontata da Boccaccio nell’introduzione del Decameron, si presume abbia fatto trenta milioni di morti. Quella del Seicento, raccontata da Manzoni nei Promessi Sposi, dimezzò letteralmente la popolazione della Sardegna. Poco più di un secolo fa, la scienza non conosceva ancora l’origine di questo morbo, né sapeva come curarlo. Yersin, scienziato di fama nonostante la giovane età, lavorava sul campo nell’estremo oriente, in mezzo alla morte e alla devastazione. Aiutato da un missionario italiano, si procurava illegalmente dei cadaveri su cui compiere le sue ricerche, esattamente come faceva il rivale giapponese. Ma in questo modo Yersin riuscì a comprendere come la causa della peste fosse un parassita dei ratti e, dunque, a trovare l’antidoto per battere quel male rimasto fino allora incurabile. Quelle apparenti pratiche demoniache, quell’infierire sui morti, hanno salvato la vita di milioni di persone. I metodi della scienza non sempre sono comprensibili a noi, comuni esseri umani. E quel che non capiamo ci provoca diffidenza, oppure diventa motivo di scandalo e sospetto. Leggete l’articolo del Post che trovate a questo link: https://www.ilpost.it/2020/03/01/influenza-spagnola/. Riassume la storia della più grande pandemia del XX secolo, la febbre spagnola che a partire dalla prima guerra mondiale fece almeno cinquanta milioni di morti in tutto il mondo. Se non avete voglia di leggere l’articolo, ve ne rivelo il passaggio più significativo. Circa vent’anni fa, un gruppo di scienziati americani ha rigenerato il virus della febbre spagnola estraendola da cadaveri ibernati e riesumati da regioni dell’estremo nord. Un esperimento pericoloso, avvenuto sotto misure di sicurezza eccezionali per ridurre al minimo ogni rischio. Inoculato nei ratti, il virus ha dimostrato la sua potenza mortale, anche a distanza di un secolo. Uno sciocco capriccio degli scienziati? No, uno studio avviato per cercare di comprendere con gli occhi della scienza di oggi quel che non si riuscì a capire un secolo fa. Non un puro esercizio accademico, ma un modo per prevenire possibili minacce future, come quella che stiamo purtroppo vivendo in queste settimane. La scienza non si limita ad osservare, la scienza deve cercare di prevedere scenari possibili. Per inciso, i virus che si potrebbero risvegliare dal permafrost sono una minaccia niente affatto remota. Ecco perché si cimenta in queste ricerche.
L’esperimento compiuto in Cina nel 2015 non è stato rivelato da un scoop del Tg3. Era stato annunciato e conosciuto da tutta la comunità scientifica mondiale, perché rispondeva ai principi di cui ho scritto poc’anzi. Però era perfetto perché si potesse associarlo alla teoria del virus creato in laboratorio e poi liberato nel mondo dalle forze del male. Tutti noi avvertiamo l’irresistibile bisogno di trovare un colpevole in carne e ossa. Ci rassicura individuare un responsabile perché dissolve il mistero, perché se qualcuno ha creato questo disastro saprà anche come salvarcene. Perché possiamo prendercela con un untore, come è sempre successo. E poi si sa, i cinesi li hanno visti tutti mangiare topi vivi. Bastavano due telefonate di verifica per capire che il Covid 19 non c’entra un fico secco col virus creato in laboratorio nel 2015, quello del vecchio servizio del Tg3. I virologi di tutto il mondo hanno risposto, in questo senso, in modo univoco. Prudenza e buon senso dovrebbero guidare chi ha ruoli di responsabilità. Invece la nostra politica più scadente non ha perso l’occasione di usare fuori contesto un servizio di cinque anni fa, pur rinnovare la sua xenofobia e l’uso strumentale della paura, per screditare le verità ufficiali che, si sa, sono solo menzogne del potere. Tutto questo per qualche consenso in più. Anche oggi, anche in questo momento. Anche quando l’emergenza imporrebbe di affrontare tutti assieme un nemico che non fa distinzioni né prigionieri.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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