Esciabì diventò qualcuno quando gli spiegarono che aveva un pennello smisurato. E quello stesso giorno cominciò a morire. Esciabì solo lui se lo ricordava come si chiamava davvero. Era comparso in città alla fine della guerra, chissà da dove. Però parlava come noi, quindi era dei dintorni, però non di Sorso perché ce ne saremmo accorti dall’accento. Dai vindioli non ci andava, andava nei bar del Corso in alto e anche di piazza Azuni, non si metteva in poco. Entrava, si guardava intorno e minaccioso diceva a tutti e a nessuno -Esci a bi’! E siccome ci faceva ridere, qualcuno il bicchiere glielo pagava sempre. Anche perché così poi se ne andava. Non perché era un vagabondo, vestito da vagabondo e con l’odore di vagabondo: non era per questo che dava fastidio. E’ che era cattivo, che il pagliaccio per noi non lo voleva fare. Noi alle feste che c’erano le gobbule eravamo abituati a uscire dal bar per buttare i soldi in terra agli straccioni di Corea e Montelepre che venivano a cantarle nei quartieri dove c’è la gente perbene e ci divertivamo a farli azzuffare tra di loro per le monete da una lira. Poi qualche volta il professor C. tirava fuori un biglietto da dieci lire e lo sventolava e quelli si prendevano a cazzotti mentre dicevano la gobbula e noi a ridere. Esciabì non c’era verso di fargli fare il dovere suo di povero. Spavaldo, altezzoso, sembra che addosso aveva lo scianè di Bonino e non quell’odore di vino e ascelle. Quindi quando se ne andava eravamo contenti perché la smetteva di guardarci tutti come pezzi di merda anche se campava delle nostre elemosine. Poi quello che è successo me l’ha raccontato la superiora delle suore che servivano nell’ospizio dei poveri dove Esciabì era andato a morire. Così, è andata. Esciabì un anno prima di morire si era portato in magazzeno una poveretta come lui. L’avevano sbattuta fuori dal casino di via Esperson perché era malata, lui l’aveva raccolta dalla strada e le aveva dato da dormire nel sottano. La notte, chiusa la porta, da fuori non entravano più né l’aria della notte né la luce del fanale. Solo il freddo, entrava. Si abbracciarono stretti nel letto di stracci e lei gli disse che lo voleva ringraziare. Lui non sapeva neppure come si faceva, ma alla fine di tutto si sorrisero e dormirono abbracciati. Voi non vi immaginate com’era la suora raccontandomi queste cose, rossa in faccia come le mani con i geloni, però le faceva piacere a dirmele perché a Esciabì e alla sua donna si vedeva che gli aveva voluto bene. Insomma, passarono le notti e un giorno Esciabì guardò distratto dentro il bugliolo e si accorse che aveva pisciato sangue. Ci riprovò e sentì i dolori delle sette spade. Allora lei gli disse che doveva andare urgente in piazza Fiume, all’ospedale, però all’ingresso di lato di via Manno, dove c’era l’ambulatorio di un dottore che lo conosceva dal tempo che lei stava ancora in via Esperson. -E così ne approfitti a fargli vedere anche a Garibaldi che secondo me ce l’hai un po’ diverso dagli altri uomini. -Diverso come? -Diverso. Andarono in via Manno e anche lì c’era una suora, di quelle con il cappello grande grande a vela, che non li voleva neppure fare entrare. Lei insistette, si misero a urlare tutte e due, arrivò un infermiere e alla fine dalla porta fece capolino il dottor Lui che si fece una grande risata e disse alla donna di Esciabì -Già è un anno che non ti vedo! A curarti sei venuta? -Non io, Esciabì. Dottor Lui mandò via suora e infermiere, disse alla donna di aspettare e fece entrare Esciabì nell’ambulatorio. Si sedette su una specie di panchetta di ferro smaltata di bianco che così gli veniva la faccia all’altezza della braghetta del paziente e ordinò -Giù pantaloni e mutande! Esciabì eseguì, il dottor Lui impallidì e balzò in piedi -Cazzu! -Grave sono dottò? -No, per se è per questo ci hai una stupidaggine che t’ha attaccato quella là e ti passa con le iniezioni. Ma… -Ma? -Ma ti rendi conto che hai una mincia più del doppio del normale? -Cosa vuol dire? -Quello che ti ho detto, vuol dire. Ma non hai mai fatto confronti? -Che confronti? -Con altri uomini, che so, al servizio militare, con i tuoi fratelli da bambino se pisciavate insieme, non ti sei mai accorto? -Io in campagna ero solo con mamma e il soldato non l’ho fatto perché dice che ero mancante. -Insomma, non hai mai visto altri uomini nudi? -No, dottò. -Allora ti annuncio che sei un fenomeno, uno scherzo della natura, un numero del circo Zanfretta. Il dottor Lui era esplicito parlando perché con la sua specialità spesso aveva a che fare con gente che le sottigliezze linguistiche non è che le apprezzava -E quando arretti come ti diventa? -Più grande, dottò. -E questo lo so. Ma quanto più grande? -Molto. Il dottor Lui accennò a una misura tra le due mani -Così? -Di più. -Così? -Di più. Al dottor Lui tremavano la mani, esitò e alla fine azzardò -Così? -Sì. Il dottore cadde a sedere sulla panchetta. Parlava sconnessamente un po’ tra sé e un po’ con Esciabì -Ma così dovrebbe dissanguarsi, quanto sangue ci vuole per nutrire quell’erezione? Ma ti capita che quando ti diventa grande ti senti svenire? -Io… -E poi, quelle dimensioni, come è possibile… ma le donne… quando… si lamentano? -Si lamentano come? -Ohi ohi, ahi ahi! E come cazzo vuoi che si lamentino. Gli fai male, lo sopportano? -Io… non lo so… Donne? Io di donna ho solo lei – disse Esciabì in piedi mezzo nudo, con il battacchio pendulo che a momenti toccava le mattonelle del pavimento, indicando con il mento la porta dietro la quale c’era la sua donna. -E prima? -Nessuna donna. E’ stata la prima che mi ha fatto fare quella roba. -Non ci avevi mai provato? -Una volta, sì. Con una che raccoglieva le olive e non c’era nessuno. Si è messa a ridere, si è sollevata la gonna e mi ha detto di avvicinarmi. Mi ha abbassato i pantaloni però poi ha urlato e se n’è fuggita. -Già lo credo. -Io non le ho fatto niente… -Ti credo, ti credo… Il dottor Lui era uno degli ultimi lombrosiani. In quei pochi minuti di visita si era già fatto un lungo film sulle degenerazioni comportamentali di Esciabì in rapporto alla sua anomalia fisica e alla fine si decise -Sentimi bene. Io preparo un foglio e tu me lo firmi. In cambio io ti curo gratis e ti do ogni mese una somma di denaro sinché campi. Ci stai? -Emmu, dottò -Non vuoi neanche sapere cosa ci scrivo nel foglio? -Quello che vuole, dottò -Ci scrivo che tu ti sei impegnato a donare alla scienza.. cioè a me… bene inteso… dopo il tuo trapasso… – ? -… la tua morte… a donare… Esciabì non era tonto -La mincia, dottò? -Quella! Ci stai? -E ca si n’affutti? Tantu, candu soggu morthu mancu a piscià mi sivi! -Allora d’accordo. Qualche giorno dopo il contratto venne firmato. E a Esciabì gli cambiò la vita. Quei soldi sicuri erano un lusso, ma poi si sentiva importante, il dottore gli aveva spiegato che quell’anomalia, a ben vedere, non era qualcosa in meno ma qualcosa in più rispetto agli altri e lui era contento, anche se notò quello che prima non aveva notato, ossia che la sua donna, quando una volta guarito ripresero ad abbracciarsi nel magazzeno, al bel meglio un pochino si irrigidiva e gli raccomandava sempre -Pianu, Esciabì, pianu… cu la caimma… intraru a lenu a lenu… E un po’ gli dispiaceva anche se lei non sembrava proprio dispiaciuta. Insomma, la vita gli cambiava. Però gli sfuggiva anche. Sarà che le iniezioni non lo avevano poi guarito davvero, sarà che quella storia che gli aveva detto il dottore che per diventargli grande l’affare gli succhiava tutto il sangue del corpo forse lo aveva impressionato, sarà tutte queste cose ma Esciabì si consumava come la stearica che adesso potevano permettersi di comprare per fare luce nel magazzeno quando chiudevano la porta che fungeva pure da finestra. La donna alla fine si accorse che lui stava morendo e che lei non poteva farci niente. Parlò con la superiora dell’ospizio di mendicità, che si conoscevano da bambine e poi avevano preso strade diverse, e siccome quella anche se era una suora era una brava donna, andò lei stessa al magazzeno con un carretto, caricò Esciabì e se lo portò in ospizio. Lo misero in un letto ma lui non mangiava e non beveva, gli si illuminavano gli occhi lungo tutte le ore di ogni santo giorno che la sua donna andava lì a trovarlo e poi li spegneva. Sino a quando, un mattino, neppure lei riuscì a riaccenderglieli. Lo portano nella camera mortuaria e il medico condotto fece un rapido esame necroscopico per il certificato. Polso, specchietto per controllare l’assenza di fiato e roba così. Non andò molto a fondo sennò si sarebbe preso un bello spavento. Zuddas portò una di quelle bare per il cimitero dei poveri che le pagava il Comune e mentre la sua donna e la superiora sistemavano Esciabì, si udì urlare da fuori -Ma allora è vero, è morto? Il dottor Lui fece irruzione nella sala mortuaria. Era spettinato, gli occhiali di traverso, il sudore che gli colava dalla faccia nel colletto della camicia. -Fermi tutti! Nessuno lo tocchi, via quella bara. Penso io a inumarlo. La superiore gli si parò davanti -E’ matto? Ma chi è lei? -Io sono uno che ha dei diritti su quest’uomo. Anzi, su questo corpo. -Quali diritti? Vada via o chiamo i carabinieri. -Legga qui, allora! La suora prese il foglio, guardò la donna di Esciabì che assentì triste e chinò il capo. E alla fine la superiora cominciò a leggere. Diventò rossa e poi di ogni colore. Ma restò calma. Tenendolo per un angolino, come fosse merda, rese il foglio al dottor Lui -E ora cosa vorrebbe fare? -Prelevare questo corpo, eseguire una pratica anatomica e poi procedere all’inumazione. -E io le dico che se lei lo tocca la faccio arrestare per vilipendio di cadavere. -La legge mi assiste! Ma la superiora, che per gestire un ospizio di leggi ne aveva dovuto studiare più del dottore, lo fulminò -Io sono la responsabile di questo defunto che da vivo era giuridicamente affidato alla mia assistenza. -Ma questo contratto… -Io ne contesto la validità e lo porterò davanti ai giudici. Ma nel frattempo la legge mi impone di procedere all’inumazione. Quindi, in mancanza di un ordine della magistratura, io le impongo di uscire. -Andremo in causa. -Andremo in causa e vedremo tra dieci anni – andando bene – che cosa le resterà da asportare del povero Esciabì. Come medico dovrebbe sapere che quello non è osso, anche se alle volte sembra: è carne. Il dottor Lui resto allocchito. Un po’ per l’inusitata cultura anatomica, o di altro tipo, manifestata dalla superiora, un po’ perché aveva capito che il suo sogno di scienziato, quello che doveva fruttargli la pubblicazione della sua vita, forse persino la libera docenza, era sfumato. Scoppiò in una risata da pazzo, strappò il contratto e ne scagliò i frammenti sul cadavere -Potevi passare alla storia! E andò via con passo malfermo. Esciabì fu sepolto, la sua donna scomparve dalla circolazione e lo stesso fu del dottor Lui. Cominciò a presentarsi ubriaco in ospedale, sino a quando sbagliò una prescrizione e una madre di famiglia ci rimise la pelle. Lo processarono e venne assolto per insufficienza di prove. Ma era rovinato. Nessuno lo vide più in giro per molto tempo sino a quando, un giorno d’inverno, mentre fuori c’erano quelli delle gobbule e noi ci preparavamo a uscire dal bar a buttargli le monetine per farli azzuffare, la porta appannata di vetro si aprì e comparve il dottor Lui. Vestito da vagabondo, con l’odore di vagando, si guardò intorno e minaccioso disse a tutti e a nessuno -Esci a bi’!
(Piazza Azuni con la “Gabbia” del bar di Sechi in un disegno di Antonio Leonardo Sechi tratto da “Sassari minore”- Gallizzi 1957)
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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