No ci può essere democrazia vera senza la stampa, senza circolazione di notizie e idee. Su questo siamo tutti d’accordo. Però bisogna chiedersi quanto bene faccia alla democrazia una stampa indebolita dalla inarrestabile crisi del settore e da linee editoriali militarmente imposte. I giornali sbagliano come sbagliamo tutti, lo sappiamo bene e sarebbe ingiusto speculare su questi errori, ma quel che è accaduto qualche giorno fa nella redazione di Libero ha veramente dell’incredibile e richiede qualche riflessione. I fatti. Il quotidiano di Feltri pubblica un’intervista al noto sondaggista Nando Pagnoncelli: il giornalista attribuisce all’interlocutore tutta una serie di osservazioni politiche, da cui si ricava la netta impressione che la linea seguita da Renzi per cercare voti a destra sia sbagliata e, anziché fargli conquistare consensi, glieli farà perdere. Pagnoncelli, via Twitter, smentisce totalmente non il contenuto dell’intervista, ma proprio l’intervista: dice di non aver mai parlato con alcun giornalista di Libero. Il giornalista controreplica, ostentando sicurezza. Conferma quanto scritto e, a riprova della sua professionalità, asserisce di aver registrato il colloquio. A questo punto Pagnoncelli, sempre via Twitter, lo invita a pubblicare la registrazione. E qui accade l’incredibile colpo di scena. Il giornalista, con una prosa degna del miglior Fantozzi, è costretto a rettificare tutto e ad ammettere di avere sbagliato persona: ha attribuito a Pagnoncelli un’intervista che in realtà sarebbe avvenuta con Nicola Piepoli, un altro sondaggista. Ve lo ripeto: è stata scritta, impaginata, titolata e pubblicata con tanto di foto – operazioni che richiedono un certo tempo – un’intervista ad un tizio che quell’intervista non l’ha mai rilasciata, semplicemente perché il giornalista ha sbagliato persona. O è stato un colossale infortunio, oppure il giornalista era convinto di aver parlato con Pagnoncelli e per errore ha chiamato Piepoli, senza cogliere l’equivoco durante il colloquio. Io questa cosa l’ho saputa perché una pagina Facebook ha pubblicato il surreale duello combattuto sul profilo Twitter di Pagnoncelli e il giornalista, fino alla resa senza condizioni di quest’ultimo. Altrimenti, quasi nessuno ne avrebbe saputo nulla. Voi direte: vabbé, non è il caso di farla tanto lunga, è stato un errore grottesco ma tutto sommato un episodio. Non è proprio così. Nella inevitabile discussione su Facebook seguita all’intervista di Libero alla persona sbagliata, sono emersi altri fatti simili. Tre anni fa, con una minuscola rettifica, Il Fatto quotidiano si è dovuto scusare per avere attribuito al parlamentare del Pd Paolo Fontanelli una serie di considerazioni molto evasive sui vitalizi di deputati e senatori condannati in via definitiva. Il problema stava nel fatto che le risposte evasive non le aveva fornite Fontanelli, ma una persona che con i vitalizi degli onorevoli non aveva nulla a che fare: il giornalista aveva sbagliato numero, chiamando chissà chi, ma dell’errore si è reso conto solo a frittata fatta, il giorno dopo la pubblicazione del pezzo. Sempre a proposito di rubriche telefoniche ingannevoli, tempo fa Repubblica aveva pubblicato un’intervista a Ernesto Franco, direttore editoriale di Einaudi. In realtà la giornalista aveva parlato con Enrico Ferrero, direttore del Salone del libro di Torino, anche in questo caso senza cogliere l’errore durante il colloquio.
Scrivo queste cose per mettere in ridicolo i giornalisti responsabili degli errori? Solo chi ha lavorato dentro una redazione e ne conosce i ritmi frenetici può capire quanto l’errore possa essere sempre in agguato, quando devi chiudere un pezzo in fretta perché il giornale sta per andare in stampa e, magari, hai anche altre cose da fare. Il problema è che i giornali si fanno sempre più attraverso i colloqui telefonici e imbottendoli con notizie raccattate qua e là, anziché con la presenza fisica sul posto dei giornalisti. Questo perché, con la crisi, le redazioni sono sempre più sguarnite e gli organici ridotti costringono i redattori a lavorare oltre il limite possibile. Senza contare i precari, la cui funzione è indispensabile in quei giornali con una linea editoriale netta: sono lavoratori con contratti perennemente in scadenza e cui conviene essere ubbidienti, anche oltre la loro coscienza. Il risultato è questa informazione, sempre più soggetta ad imprecisioni quando non ad errori davvero incredibili. La nostra democrazia ha nei giornali un elemento indispensabile, ma se il loro livello di attendibilità precipita, precipita con loro anche la democrazia. Aggiungo un elemento, dopo aver letto stamattina sul Fatto quotidiano le due pagine centrali dedicate alla sezione di Casa Pound di Ostia, con le quali si cerca di stabilire un nesso tra la figura di Ezra Pound e questo movimento. È vero che il giornalista deve guardare alla realtà nel modo più distaccato possibile, ma quando l’ideologo del gruppo sostiene che “ad Auschwitz i giovani devono andarci per libera scelta e non per imposizione delle scuole” e il giornalista riporta questa perla in un sommario, così da sottolinearla, io penso che si stia assecondando un revisionismo d’accatto per il bisogno di fornire una legittimazione ideologica al male dell’antipolitica. Un giornalista, per quanto imparziale cronista della realtà, questo problema dovrebbe porselo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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