Esploratore o vagabondo? L’eterno ricercatore di una meta che, come insegna Zenone nel paradosso di Achille e della tartaruga, non riuscirà mai a raggiungere, per scoprire che alla fine la meta è il viaggio stesso? Oppure un anarchico ribelle persino a sé stesso, dove il rifiuto di qualcosa che assomigli a una radice assurge ad appassionato e confuso simbolo di libertà? Ho la sensazione che l’autore Francesco Giorgioni, traducendo e interpretando gli sbrindellati (non soltanto nel senso materiale) diari di viaggio di Libero Manca sia andato alla ricerca soprattutto di una risposta a questo quesito poetico ed esistenziale. Probabilmente non l’ha trovata, ma il risultato è stato un piccolo capolavoro della letteratura di viaggio intitolato “Libero, il sardo che girò il mondo in bicicletta”, uscito in questi giorni con la Edes. Di solito in questo tipo di racconto il viaggiatore è un eroe eponimo che ha coscienza della sua centralità. Chiunque ne sia l’autore, o il protagonista o un altro narratore, il viaggiatore-eroe sa di essere al centro di una vicenda il cui teatro è la scoperta di un mondo sconosciuto. In questo senso c’è una sorta di parificazione dei meriti, il viaggio letterario è un genere democratico, perché ci pare naturale che Libero dia il suo nome al libro di Giorgioni che ne racconta il lungo viaggio, così come non troviamo niente di strano che Odisseo dia il titolo a un altro noto romanzo di viaggio. Roberto Virdis, nella prefazione, racconta di come lui e l’autore Giorgioni (scrittore gallurese con forte senso di appartenenza a questa regione sarda e alla sua lingua che conosce a livello professionale, autore di altri riusciti romanzi tra i quali cito il magnifico “Cosa Conta”, docente di Italiano e Storia, giornalista professionista) conobbero casualmente l’autore di questo viaggio in bicicletta intorno al mondo, compiuto dal maggio del 1974 al dicembre del 1975. L’incontro avvenne nel 2017, quando Libero Manca, l’allora giovanissimo protagonista dell’avventura, era già un vecchio signore che probabilmente aveva una consapevolezza personale ma non oggettiva della straordinarietà della sua lontana avventura. Si parlava di bicicletta, più che altro, dato che Giorgioni e Virdis sono arrabbiati cicloamatori. A un certo punto Libero, a riprova della sua conoscenza della macchina a pedali, informò:– Io ho fatto il giro del mondo in bicicletta.-In che senso, scusi? Il senso, Libero lo spiegò a Giorgioni in un’annosa seduta di narrazione orale davanti ai suoi appunti di viaggio, descritti come disordinati, fisicamente e concettualmente costellati delle cicatrici di quella ostinata peregrinazione, ma pieni di notizie, di emozioni, dello stupore di una continua scoperta di persone e cose che sono sempre state lì e sempre ci saranno, apparentemente vicine a noi, soprattutto ora, in questa globalità fatta di video, di telefonini, di social diffusi, di selfie con i più svariati protagonisti della storia del mondo; ma in realtà distanti se non si possiede lo spirito del viaggiatore, di colui che vuole vivere con il suo corpo e vedere con i suoi occhi. Niente, a esempio, racconta la condizione della donna come una apparentemente banale notazione al margine di un viaggio di mille chilometri tra Herat e Kabul, su un bus scassato, con bicicletta al seguito perché le autorità non avevano permesso a Libero di usarla su quel pericoloso percorso: “Sul mio diario registro la presenza sul bus di una ragazzina adolescente, in viaggio da sola, costretta a ogni fermata a cedere il suo posto agli uomini, secondo l’usanza locale”.Ce ne sono mille, tra Europa, Asia, Australia e America Latina di notazioni rapide e apparentemente ingenue che danno in realtà l’idea di questo percorrere le meraviglie e i drammi del mondo. Un mondo che, come tutti i bei libri di viaggio, questo racconto ci fa sembrare più piccolo, poiché fisicamente raggiungibile, e insieme fantasticamente grande, poiché la vera conquista intima di quegli spazi non è di tutti ma solo degli eroi che intraprendono l’avventura usando l’anima, non soltanto l’aereo, il treno, l’automobile. O persino la bicicletta. Cosa c’entra il fatto che libero sia sardo? Razionalmente, direi nulla. In una suggestione culturale autoctona si potrebbe invece dire che Libero, nell’interpretazione di Giorgioni, ha restituito nella sua vita movimentata il senso di avventura a tutti i viaggiatori-colonizzatori che per millenni hanno ritenuto la Sardegna una importante e mistica meta dei loro movimenti. Il vero viaggio di Libero, nato nel 1948 a Tadasuni, sulle sponde del lago Omodeo, cominciò infatti prima di quello intorno al mondo. Esattamente quando nel 1965, per non fare il soldato, non gli andava, emigrò in Francia. Viveva a Voiron, nella Savoia, regione che sino al 1860 apparteneva, singolare coincidenza, al Regno di Sardegna . E un’altra evocativa coincidenza è la vicina cittadina della Savoia dove in un giorno di fitta neve Libero incontrò un signore in bicicletta che gli fece venire l’idea del viaggio. La cittadina si chiama Chambèry, ed è quella dove nel 1833, quando faceva parte del Regno di Sardegna, venne fucilato alla schiena l’ufficiale dell’esercito sardo Efisio Tola, fratello del noto Pasquale. Efisio, martire sardo di uno dei momenti più luminosi del risorgimento italiano, era accusato di essere un mazziniano, quello che ai giorni nostri sarebbe ritenuto un sanguinario terrorista. Probabilmente mazziniano e repubblicano lo era davvero, ma il suo viaggio verso una nuova società, dopo la fuga dall’aristocrazia conservatrice sarda, venne bruscamente interrotto dalle pallottole dei suoi commilitoni su ordine del re di Sardegna Carlo Alberto. Con una simile partenza, il viaggio non poteva che essere grandioso. Una nota sullo stile narrativo di Giorgioni, che in questo libro dimostra una raffinata conoscenza della struttura e del metodo del romanzo. L’autore, apparentemente, non si sovrappone al protagonista, cioè a quello che formalmente è il narratore, l’autore degli appunti di viaggio. Ma in realtà, nella lettura scorrevole, affascinante e, pur senza ostentazioni, colta, si nota l’indirizzo del vero narratore, che prende in mano un linguaggio e una tematica elementari, si potrebbe dire “popolari”, per trasformarli in un’opera popolareggiante ma apparentemente popolare. In parole povere, una bellissima lettura resa ancora più gradevole dalle numerose fotografie di viaggio che hanno tutto il fascino vintage delle diapositive Cibachrome.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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