E a maggio al cinema teatro Verdi arrivava Ercole. Cioè, magari alle volte era Maciste. O anche Ursus. Comunque era sempre un ercoloide. Cambiava solo il nome. Qualche volta neppure cambiava la faccia dell’attore protagonista o quella della bonazza comprimaria, che più crescevamo di età e più si affermava nei nostri interessi oscurando l’attenzione verso l’eroe eponimo. Tanto che finite le scuole medie e cominciati ad apprezzare in quarta ginnasio i primi veri profumi di donna (cioè, di ragazzina) e non le illusioni celluloidali, pur nell’imporramento massimo di quelle incipienti esperienze, ci capitava di pensare con un pizzico di nostalgia: questa qui se le sogna le cosce di Sylva Koscina, di Liana Orfei o di Leonora Ruffo. Con questo non voglio dire che le realtà presenti ci piacessero meno delle recenti passate fantasie, non eravamo certo dei nerd segaioli (giusto per capirci con un approccio contemporaneo), ma, insomma, da prudenti confidenze tra amici cominciammo a capire che ogni periodo della vita ha i suoi bei momenti, anche se alcuni sono più belli degli altri. Perché maggio? L’ho capito da adulto lavorando con scrupolo sul Mereghetti, il Morandini, il Farinotti e altra roba così. In quell’età d’oro a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, il nuovo peplum usciva ogni anno a dicembre, per le feste natalizie, o a gennaio dell’anno successivo. Ma in provincia arrivava a primavera, allora le pellicole circolavano per posta raccomandata e non via internet come adesso, e ci mettevano un po’ a varcare il Tirreno. Quindi in primavera al Verdi cominciava la stagione di Nonmitoccarechemisciupilmuscolo e noi ogni sabato ci procuravano cento lire per il biglietto di loggione. Si entrava alle 3 del pomeriggio e si usciva poco prima delle 9, giusto per l’ora di cena, con il film che lo sapevamo a memoria e anticipavamo le battute con grandi urla, accolti da mamme incazzatissime anche se abbastanza tranquille perché quelli erano tempi e luoghi in cui i bambini potevano stare a lungo fuori di casa senza troppi rischi. Poi tanto a casa finiti i compiti non ci facevi niente perché la casa era così piccola che finivi per rompere le balle ai grandi e quindi la stanza dei giochi era la strada. O il cinema, se c’erano soldi. Io non riuscirei a immaginare un Ercole, un Maciste o un Ursus se non al Verdi. Io mi immaginavo che Steve Reeves, George Marchal, Reg Park, Kirk Morris, Gordon Mitchell e tutti gli altri mister muscolo, finito il film andassero nei camerini del teatro a struccarsi, come facevano gli artisti della stagione lirica o quelli della prosa, dei quali andavo a spiare le prove, disinteressandomi però al debutto: un po’ perché il biglietto d’ingresso non costava certo le cento lire del loggione per il cinema e un po’ perché le prove mi divertivano perché c’erano registi e direttori d’orchestra che urlavano e dicevano parolacce, ma lo spettacolo vero e proprio ancora mi rompeva i miei piccoli coglioni. E’ stato solo dopo che, diventato adulto e intellettuale di sinistra, mi sono sottoposto a più grandi e mature rotture di coglioni. Quando alla fine del film la popolazione salvata da Ercole gli si faceva intorno con cavallo partente (qualche volta anche cagante: erano film al risparmio e non sempre si potevano rifare le scene), gli diceva -Ercole (o Maciste o Ursus), non partire, resta con noi. E lui rispondeva -Non posso, nuove avventure mi attendono. E spronava il cavallo. A volte inquadravano la faccia delusa con lacrimuccia della comprimaria, altre volte invece la Koscina o l’Orfei di turno saltava in groppa e partivano in due, mentre il pubblico più adulto informava gli astanti -Stanotte chiavano. Noi più piccoli capivano che quel verbo indicava un atto positivo e piacevole che immaginavamo venisse compiuto nei palchetti accoglienti del teatro, una volta cessato l’affollamento del fine settimana, o tra gli arredi di scena che ingombravano il retropalco, magari utilizzando per scopi più allegri il canapè sul quale pochi giorni prima Violetta era morta di Tisi. Il Verdi non era un contenitore di gente e di spettacoli. Il Verdi era (e grazie al cielo lo è ancora) un mondo antico dove ogni sassarese come si tocca convoglia il suo immaginario di cinema, opera, commedie, rivista, circo equestre, pugilato e ogni altra forma di spettacolo. Ercole e Maciste non finivano avvolti in una scatola rotonda di latta, ma in carne ossa circolavano in quei corridoi, nel foyer, prendevano un vermouth al bar, strizzavano l’occhio alla bigliettaia. Ercole e Maciste erano l’anima del Verdi. Per me, allora. Magari per altri lo erano altri eroi. L’unica cosa certa è che il Verdi ha un anima che ciascuno vede diversa a seconda dei gusti e dell’età. Ed è l’anima della nostra città.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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