Snoopy in Italia è nato in aprile, una bellissima primavera del 1965, primo numero del mensile Linus, la svolta italiana nella storia del fumetto.Dice, perché proprio Snoopy con tutto quel ben di Dio che c’era su Linus?Perché, secondo voi chi è sopravvissuto dopo quella rivoluzione senza che neppure un pelo gli sia diventato grigio, senza un filino di noia, un sospetto di déjà-vu, una lacrima di vintage, un retrogusto di inattualità? Ne vedete molti, tra quei personaggi approdati da noi 54 anni fa tra le pagine di quel giornale, che siano ancora vivi?Il fatto è che il cane di Charlie Brown ha attraversato i tempi. E succede a pochi personaggi della letteratura di diventare un’icona. Don Chisciotte, Madame Bovary, Ulisse sono icone. Gente così, insomma. E Snoopy un’icona lo è persino su Facebook e WhatsApp. Pensate che pure Maigret sa un po’ di stantio anche se è sempre commestibile, che Sherlock Holmes e James Bond sopravvivono soltanto nei remake dei remake e quelli che sanno chi sia Daniel Craig sono miliardi mentre quelli che conoscono lo 007 di Fleming saranno tre o quattro.Snoopy, invece, dalle origini a oggi lo conoscono tutti. In modo diverso, magari, da come lo conoscevo io. Forse io, 16 anni nel 1968, quando Snoopy e gli altri Peanuts avevano raggiunto l’apogeo, cercavo nel biliardo nascosto nella misteriosa cuccia simboli e significati diversi da quelli di cui vanno alla caccia i ragazzi di adesso. Ma a incollare il lettore, adesso come allora, erano l’indipendenza, l’intelligenza e la simpatia del personaggio.In qualsiasi classe di Inglese se dite a voce alta “It was a dark and stormy night”, tutti gli alunni rideranno o sorrideranno perché capiranno che vi riferite a quel “Era una notte buia e tempestosa” con la quale lo Snoopy scrittore comincia la sua storia che l’editore rifiuterà. Snoopy che scrive a macchina sulla sua cuccia è ciò che siamo, tutto quello che nell’immaginario è la nostra vita quotidiana fatta di sogni, tentativi frustrati e gioie carpite giorno per giorno.“It was…” è un luogo comune letterario usato per la prima volta nel 1830 dall’inglese Edward Bulwer-Lytton in “Paul Clifford”. Da allora diventò l’incipit simbolo del romanzo a effetto. In Italia, ridendoci sopra, lo hanno citato anche Umberto Eco nel “Nome della Rosa” e Andrea Camilleri nel “Birraio di Preston”, ma la fama l’ha raggiunta solo sul tetto della cuccia di Snoopy.Poi, ecco l’Asso della prima guerra mondiale a bordo del suo Sopwith Camel, cioè la cuccia di Snoopy e lui seduto sopra con il caschetto di cuoio, gli occhiali da aviatore e la sciarpa portata indietro dal vento (si sa, nei trabiccoli della Grande Guerra non c’era carlinga coperta): “Un giorno ti avrò, Barone Rosso”, dice con il pugno levato al cielo mentre un filo di fumo si leva dalla cuccia che precipita.E noi sappiamo che il maledetto Barone Rosso e l’editore che respinge il manoscritto con la motivazione “Spiacenti, non siamo interessati e la preghiamo di non ritentare” sono in realtà la stessa persona. E nessuno dei due riuscirà a scoraggiare il bracchetto. E neppure noi, riuscirà a scoraggiare. Siamo tutti bracchetti. Ecco il segreto del successo eterno di Snoopy.Il Linus italiano arrivò quindi in quei turbolenti anni Sessanta a farci capire che il fumetto aveva la stessa dignità di ogni altra forma letteraria e artistica.Quando ero al liceo avevo un professore di Storia dell’Arte che si chiamava Francesco Tanda ed era un intellettuale dall’intelligenza straordinaria. Accettò di condividere con me la scoperta del fumetto americano classico, dai Peanuts di Schulz (“Noccioline, ma nel senso di piccolezze, la vita quotidiana che racchiude la grandezza della vita”, ci spiegavamo vicendevolmente), a Li’l Abner di Al Capp e alla poesia pura di Krazy Kat di Herriman. Il mio professore aveva capito che i capitelli dorico, ionico e corinzio e la pittura da Giotto a Carrà avevo poca intenzione di studiarli e il tacito patto era che se ogni tanto avessi raggiunto la sufficienza studiando il programma dal manuale di Argan lui avrebbe acconsentito a discutere con me di fumetti ogni volta che volevo, anche se lo bloccavo in corridoio, mentre correva da una classe all’altra, per esporgli un mio dubbio o dargli una risposta a uno che il giorno prima aveva espresso lui.-Professore, ho trovato a seconda mano il numero scorso di Linus e c’è un articolo di Oreste del Buono dove dice che nei Peanuts la mancanza di sfondi è voluta perché non devono distrarre dal dialogo e dall’icasticità delle espressioni. Proprio come diceva lei.E lui si fermava ad ascoltarmi fingendo noncuranza ma visibilmente compiaciuto-Visto? Ne ero sicuro. Portalo a scuola.Ho accanto al computer, mentre scrivo, il primo numero di Linus. Fa parte dei miei tesori che ho imparato a raccogliere e conservare perché quel professore mi insegnò che oltre che belli e da amare, i fumetti sono anche rispettabili. E insieme ai primi numeri di Linus conservo anche quelli di Tex Willer che portano date in cui non ero neppure nella mente dei miei genitori e altri giornalini che certi dicono meno nobili tipo Tiramolla o Il Monello e L’Intrepido. Ma a me piacciono tutti. In maniera diversa, ma tutti.Però quel primo numero di Linus diretto da Gandini, che si apre con un’intervista di Umberto Eco a Elio Vittorini e Oreste Del Buono, beh, insomma, dà proprio un’idea dello sdoganamento che il fumetto ebbe in quegli anni. Vittorini – che allora tra le altre cose era anche il più grande esperto italiano di letteratura americana – paragona Schulz a Salinger, ma poi ci ripensa e afferma che Schulz è più grande: “Perché Salinger resta poeta, ma non riesce a essere il poeta di una società”.Come invece è senza ombra di dubbio quel bracchetto.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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