Ci sono persone cui si vuole bene nonostante tutto. “Era mio padre”, diceva il titolo di un film. So bene che è impopolare difendere Indro Montanelli in questo momento, ma mi sentirei un vigliacco se mi tirassi indietro proprio ora. L’ho sempre considerato un modello della professione, pur nella distanza siderale da certe sue posizioni politiche giovanili. Nonostante il passato fascista di Montanelli e quella squallida storia della bambina schiava. Credo che la sua grandezza vada difesa. Non credo che nella redazione di Sardegnablogger tutti la pensino come me: ricordo uno splendido pezzo di Cosimo Filigheddu che faceva riferimento al passato di Montanelli, ben prima che tanti scoprissero quella brutta storia di violenza coloniale. Ma in questo blog esiste la libertà di assumere posizioni a titolo personale, non necessariamente condivise. L’Indro Montanelli che ho conosciuto io era un vecchio con tanta gloria e ancora molta passione da spendere. Era sopravvissuto alle pallottole dell’estremismo di sinistra e ai brindisi di chi, la sera stessa dell’attentato, aveva festeggiato l’agguato come un atto rivoluzionario. Non cercò mai di passare per martire, ma andava fiero dell’odio che riusciva a suscitare. Era un uomo che rivendicava l’autonomia della professione, con tutte le sue forze e senza condizioni. L’Indro Montanelli che conobbi io, da ragazzo appassionato di giornalismo, fu quello che tenne testa all’editore Berlusconi, quando questi decise che Il Giornale avrebbe dovuto assecondare la sua avventura politica. Montanelli disse di no e se ne andò, perché non accettava intromissioni del padrone sui contenuti. Berlusconi avrebbe poi trovato direttori molto più malleabili, ma il quasi novantenne Indro tenne la schiena dritta ed ebbe persino la forza di fondare un nuovo quotidiano. Finì la sua vita quasi da emarginato, ma senza cedere di un millimetro a certi principi cardine della professione. Il Montanelli che ho amato io è l’autore di entusiasmanti corrispondenze di guerra e il cronista capace di cogliere l’essenza di epocali rivolte del Novecento, il graffiante ritrattista dei grandi del suo tempo, è lo storico che ha raccontato con scrittura vivida l’Italia del suo secolo, è il romanziere del Generale della Rovere. È l’uomo che nei suoi diari mostra il lato più fragile di sé. Capisco l’indignazione di chi ha scoperto certe ingombranti ombre del suo passato. Ma in ciascuno di noi convivono più persone. Spesso questa pluralità si distingue ed emerge col tempo. A me pare che l’ultimo Montanelli, il Montanelli che in uno dei suoi ultimi pezzi arrivò ad abiurare al suo credo politico, fosse un uomo molto diverso dall’orribile soldato che turpemente approfittava dell’innocenza di una ragazzina. Non c’è nulla da giustificare. Non serve dire che nomi altisonanti della letteratura frequentarono prostitute o non seppero resistere a squallide pulsioni. Ma non sempre le statue commemorano santi senza macchia. Più spesso ricordano il meglio di uomini che ebbero anche del peggio da farsi perdonare, anche se non sempre questo peggio è perdonabile. Io non rimuoverò dalla parete la foto di Montanelli seduto in un’aula di tribunale, con la Lettera 32 sulle ginocchia e il cappotto fino alle caviglie. È un uomo cui ho voluto bene e non gli volterò le spalle adesso.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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