Ci sono umoristi come barboncini che fanno pipì nel salotto della signora, lei gli fa un blando totò al culetto e dice alle amiche che il suo cane è birichino. Ci sono umoristi come gattoni che improvvisamente scagazzano tutto il salotto, così, per repentina scelta, a costo di farsi sbattere fuori di casa e ritrovarsi in strada. A quale specie apparteneva Marcello Marchesi? Probabilmente a una di mezzo. Io so soltanto che nella mia vita avrei voluto fare tutto quello che ha fatto lui, salvo morire sbattuto da un’onda contro uno scoglio, come gli accadde il 19 luglio del 1978, a 66 anni, mentre nuotava senza pensieri nel mare di San Giovanni di Sinis. Aveva comprato una casetta lì vicino e veniva in Sardegna per scrivere e godersi il mare. Gli dedico l’agenda di oggi e più che a lui a ciò che rappresenta: il nobile e pacioccone umorismo italiano, quello di autori non impegnati e ignari di maneggiare efficacemente l’arma più impegnata che un intellettuale possa usare. Marchesi abitava nel mondo di Campanile, Longanesi, Flaiano, Metz, Patti, Cardarelli, Simili, A. G. Rossi, dei giovani Fellini e Scola del periodo del Marc’Aurelio, del Candido e del Bertoldo e di altri cometemovitefulmino del loro calibro. Aveva lavorato con alcuni di loro e con altri ancora quali Guareschi, Mosca e Manzoni (Carletto). Che fine ha fatto quel mondo? C’è chi dice che è stato mandato a gambe all’aria dall’unica duratura vittoria che il Sessantotto abbia conseguito, cioè l’affermazione dell’impegno assoluto come pratica intellettuale. Non so se sia vero. Indubbiamente io, 17 anni alla fine del 1968 e dentro sino al collo nella sinistra extraparlamentare già da qualche anno, quegli autori li leggevo di nascosto. Adesso salterà fuori qualche compagno di quei tempi a dirmi esagerato, che non c’era tutto quello stalinismo che ricordo. Ma credetemi, ce n’erano tanti di commissari del popolo che rompevano i coglioni a chi cercava distrazioni dal “Che fare?” di Lenin o “Stella rossa sulla Cina” di Edgar Snow. E quindi per quieto vivere evitavi di provocare. Io mi ricordo che riuscivo a farmi grandi chiacchierate sull’umorismo italiano, che mi piaceva da morire, e persino sul proibitissimo Giovannino Guareschi (che a rigore non era un umorista puro) soltanto con due “revisionisti”. Cioè, comunisti, sì, come me, ma del Pci, ed entrambi di eccezionale e tutt’altro che ingabbiata cultura: uno era un dirigente sardo del partito, Giovanni Meloni, poi passato al Manifesto e in seguito divenuto anche deputato; l’altro era Antonello Mattone, che ben presto è arrivato a essere uno dei più apprezzati storici sardi. Non so se anche loro, ma non credo, nel loro habitat politico parlassero clandestinamente del “Diario futile di un signore di mezza età” o del “Sadico del villaggio” (cito un paio di titoli di Marchesi), o del “Destino si chiama Clotilde” di Guareschi o dell’immenso Achille Campanile, il campione che insidia Mark Twain, Oscar Wilde, Rabelais, Gogol e metteteci quei mille altri che nella vostra vita vi hanno fatto ridere con la sensazione di non ridere per delle cazzate. Ci dicevamo che era strano questo incredibilmente bello umorismo italiano, così oggettivamente impegnato e antifascista, ma officiato da autori tutt’altro che disposti a buttarla volontariamente in politica. E in politica di sinistra. Si pensi a Longanesi: enfant terrible durante il Fascismo, ma comunque autorevole intellettuale di regime e poi esplicitamente di destra nell’Italia democratica. Eppure gli potevi dire di destra ma non conservatore. Io, almeno, non me la sarei sentita. Ma a parte Longanesi, che comunque parlava di politica ed era in un certo senso militante, pensate a Marchesi, Campanile, Metz, Manzoni e a tutta quella greffa, che se non fosse stato per le impennate verso il neorealismo impegnato e allucinato di Zavattini con la complicità di De Sica, nella loro vita apparivano quali signori che non sapevano da parte stesse il mondo. Eppure se li leggete, se sentite i loro lavori radio e tv, se vi riguardate dalle vecchie teche Rai “Il signore di mezza età” o “L’amico del giaguaro”, per dire due programmi di Marchesi, capite subito che quell’umorismo era più rivoluzionario del libretto rosso di Mao, di cui anch’io brandivo una copia fingendo di non capire (ma in realtà lo capivo anche se ero un po’ coglione) che il mio comunismo di ragazzino europeo non poteva essere quello delle guardie rosse cinesi e roba del genere. Anche queste cose ci dicevamo nelle chiacchierate con Meloni e Mattone, perché parlando di umorismo, leggendolo e praticandolo, se c’è una cosa che impari è l’autoironia, cioè ti accorgi di quando il tuo essere umorista è involontario e quindi sei semplicemente ridicolo. Ma anche se sento su dischi eBay a 78 giri “I quattro moschettieri” di Nizza e Morbelli, mi chiedo come l’Eiar di Mussolini potesse trasmettere impunemente un programma certo non esplicitamente antifascista ma senz’altro fuori dai ristrettissimi confini culturali del Regime. O come la Rai della Democrazia Cristiana potesse lasciare sfuggire dalle maglie della sua censura i liberatori monologhi di Marchesi, persino i suoi caroselli e i suoi slogan che sfottendo l’industria del boom ne facevano vendere i prodotti: Vecchia Romagna etichetta nera, il brandy che crea un’atmosfera; non è vero che tutto fa brodo, è Lombardi il vero buon brodo; un brandy, quale?, mah, uno qualsiasi, che figura!, per me uno Stock 84, il signore sì che se ne intende. Vi rendete conto? Tutte prese per il culo alla società italiana degli anni della ripresa, lo stesso atteggiamento che Luciano Bianciardi, ma più amaramente, diffondeva con la sua “Vita agra”. Mi ha colpito qualche anno fa un articolo, mi sembra nella Cultura del Corriere, che definiva questa grande scuola quella degli “anarchici conservatori”. E’ una buona riflessione, anche se “conservatore” implica una scelta di campo. Quelli secondo me non volevano né conservare né innovare niente, ma si divertivano a sparare cannonate e quando uno spara cannonate non può sperare di non fare casino. Gente strana, pensate soltanto a Guareschi, bollato da noi comunisti trinariciuti come uno dei più spregevoli servi della reazione, autore nel ’48 dei più efficaci slogan contro il Fronte Popolare e a favore della Dc. Eppure le due pesanti prigionie che soffrì nella sua vita e che gli minarono la salute sino a farlo morire prima del tempo, furono la prima in un campo di concentramento nazista perché si era rifiutato di passare con i fascisti di Salò, l’altra nelle carceri democratiche con l’accusa di avere diffamato il capo della Dc De Gasperi. Dove sono ora tutti i raffinati esegeti di quello che qualcuno (ma gli antropologi smentiscono) insiste a credere che sia il tratto italiano? Vedo qualche loro segno in Renzo Arbore e soprattutto nel grandissimo Gigi Proietti, che non a caso è il migliore interprete ed erede di quel Petrolini del quale Mussolini, per tutta la vita, non riuscì bene a capire se lo stesse prendendo per il culo o no. Penso di sì, però.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design