Io li ricordo i giorni di Basaglia, maggio del ’78, la legge che tra mille ostacoli ma in un percorso inarrestabile portò alla chiusura dei manicomi. E anche la prima volta che varcai il grande cancello del manicomio di Rizzeddu. Mi sembra fosse il 1975 o giù di lì e i medici “basagliani” di Sassari convocarono una conferenza stampa per parlare del loro contributo verso quella rivoluzione del concetto stesso di malattia mentale. Allora una “conferenza stampa” spesso si risolveva nella conversazione tra i conferenzieri e un solo giornalista, quello inviato dalla Nuova Sardegna, l’unica testata locale. Toccò a me la cronaca di tutto il peso storico di quella conferenza: cioè l’essere stata convocata non in luoghi pubblici connotati politicamente (a esempio la Camera del Lavoro, spesso sede delle propaggini sassaresi di grandi eventi riformatori), ma all’interno del tetro e misterioso ospedale psichiatrico, fino ad allora aperto soltanto ai matti da legare, ai rari parenti in visita e al personale. Aprirlo a un giornalista significava infrangere le barriere, trasformarlo da vigilatissimo luogo di contenzione quanto meno a comune luogo di cura. Ma per un estraneo entrarvi in quell’epoca per la prima volta era come entrare in una galera. Un giornalista, persino se comunista, poteva avere tutta la coscienza intellettuale del ruolo repressivo di una simile istituzione, dell’inciviltà delle norme sul trattamento delle malattie di mente, del grande significato di progresso che quella riforma ricopriva, ma non si poteva liberare in quattro e quattr’otto di una cultura della follia che da millenni gli circolava nel sangue, associando nel suo inconscio concetti quali pazzia e incurabilità, diversità e asocialità, pericolo potenziale e camicia di forza. Ricordo che per un equivoco aggirai senza essere visto un piccolo ingresso controllato da un dipendente, entrando direttamente da un grande cancello che era stato tenuto aperto per il passaggio di qualche mezzo. Mi trovai così in un viale che portava a diverse costruzioni e non sapevo dove andare. Avvicinai un uomo e mi accorsi subito che era un malato dal modo in cui mi guardò quando si voltò al mio richiamo, dalla voce stridula e ne ebbi conferma dall’ossessiva ripetizione di parole e domande. -Cosa fai qui? Chi sei? Cosa fai qui? -Scusi sono un giornalista, cerco il dottor… -Chi sei? Chi sei? Poi introdusse un concetto nuovo che mi fece rabbrividire non so se di paura o di pena -Lo sai che qui è pericoloso? E’ pericoloso. Lo sai? Avvicinò il suo viso al mio e sussurrò -Qui ci sono i pazzi! Arrivò un infermiere. Lo prese per un braccio costringendolo a guardarlo bene e in viso e urlò -Come ti permetti di disturbare la gente? Non ti faccio più uscire dal reparto, capito? Il malato si allontanò palesemente intimorito. Avevo provocato un casino, per la mia sbadataggine avevo forse causato un aggravio di contenzione e di sofferenza. Lo dissi all’infermiere ma lui mi tranquillizzò -Non gli faremo niente, s’immagini. Ma lei piuttosto si sarebbe dovuto qualificare all’ingresso, adesso l’accompagno io dai dottori. Ci avvicinammo a uno dei padiglione dove i due psichiatri basagliani stavano a una finestra guardando la scena con grandi sorrisi. Anzi, uno dei due proprio rideva. Capii perché quando l’infermiere mi salutò -E del resto, lei lo sa meglio di me: rosso di sera bel tempo si spera. Esaurite le prese per il culo nei miei confronti, i medici mi spiegarono che l’ “infermiere” era in realtà un malato “istituzionalizzato”, significava che l’istituzione manicomiale, che da anni era l’unico suo mondo, lo aveva talmente assorbito che lui aveva finito per farne parte scegliendosi l’illusione di un ruolo attivo, anziché di ricoverato. Un fenomeno comune, aggiunsero. Chiesi -E nell’identità artificiale di infermiere di manicomio è parte fondamentale il concetto di punizione? A quell’altro malato ha subito urlato “Non ti faccio più uscire dal reparto!”. -Abbiamo convocato una conferenza stampa proprio per parlare di queste cose. Sia chiaro, nel terrore di ciò che erano i manicomi in Italia e nel mondo (i civilissimi Usa stavano molto peggio di noi) Rizzeddu non era certo il peggio. Tra l’altro negli ultimi anni la città aveva smesso di considerare l’ospedale psichiatrico un non luogo da escludere. L’università, a esempio, con i suoi gruppi di ricerca, stava dando da tempo un importante contributo a ogni tipo di riflessione su questa istituzione e all’interno dello stesso ospedale, nel personale medico e infermieristico, era presente un’aria di rinnovamento. Ma comunque la rivoluzione non si era ancora compiuta e l’istituzione aveva ancora il suo orribile carattere di galera il cui compito, come quello di tutte le galere, era soprattutto quello di tenere qualcuno dentro e tutto il resto del mondo fuori. Negli anni successivi, prima che il manicomio venisse definitivamente chiuso, ebbi modo diverse volte di visitare quei reparti. Di vedere donne e uomini rinchiusi, di udire donne e uomini che mi urlavano: dica a mio marito ( a mia moglie, ai miei figli, ai miei fratelli) di farmi uscire da qui. Quell’incubo non esiste più. E quando l’ultimo dei malati fu libero e il trattamento sanitario obbligatorio fu finalmente ridotto a pochi e accertati casi e soltanto per lo stretto tempo necessario alle cure che eliminino pericoli per sé e gli altri, ebbene, avendo visto quei reparti in piena funzione, ho profondo disprezzo nei confronti di tutti quelli che qui o là su internet, dopo qualche tragica esplosione di follia in qualche angolo del mondo, urlacchiano che bisogna riaprirli, che dobbiamo toglierci dai piedi i dementi bavosi che hanno invaso le strade da quando i pazzi non li tengono più al sicuro. Quelli che dicono che Basaglia ha sbagliato tutto ho idea che bevano alla stessa fonte di quelli che chiedono la pena di morte quando un delitto ci spaventa più di altri o che propugnano la riapertura dei casini perché tanto le puttane ci sono sempre. Cosa vuoi dire a queste persone? Solo sperare che quelli a cui fanno vincere le elezioni un giorno o l’altro non le accontentino.
(In alto, “La sala delle agitate” di Telemaco Signorini)
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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