“Napoletano?” “Sì” “Emigrante?” “No! Non sono emigrante! Deve finire questa storia che se un napoletano decide di viaggiare diventa per forza un emigrante”. Scrivo mentre guardo in tv, per l’ennesima volta, “Ricomincio da tre” di Massimo Troisi. So che sto per scrivere qualcosa di impopolare, ma la scrivo lo stesso. Mi chiedo quanti, tra i sardi che ogni anno lasciano l’Isola, lo facciano perché costretti, dunque per soddisfare bisogni primari in mancanza di alternative nel luogo d’origine, e quanti invece si spostino per bisogno di conoscenza, per allargare i propri orizzonti, perché c’è tanto altro mondo da conoscere, prima di morire. È chiaro che quelli che vanno via perché in Sardegna non trovano un lavoro o condizioni di vita accettabili sono una schiacciante maggioranza. Credo che la quasi totalità dei 400.982 sardi emigrati tra il 1955 e il 1971 non avesse scelta, ma credo anche che oggi questa percentuale sia più bassa. Ci sono sardi che lasciano l’Isola, magari solo temporanemante, per una libera scelta di vita, perché per completare loro stessi devono conoscere le diversità. Per quanto si possa essere affettivamente legati al luogo dove si è nati, c’è anche chi pensa che il luogo dove si è nati non sia il centro del mondo. Perché il centro del mondo non esiste, perché il centro del mondo è ovunque e quell’ovunque va esplorato, per quanto possibile. Decidendo poi di tornare in Sardegna, oppure di non tornarci. Sia chiaro che non voglio sminuire il dramma dei viaggi della speranza con le valige tenute assieme dallo spago, così come deve anche essere chiaro che non trovo normale incontrare centinaia di sardi nei bar, nei ristoranti e negli alberghi delle località alpine. L’emigrazione per mancanza di alternative resta un’emergenza, questo non è in discussione. Ma non è di questo che ho parlato sinora. Tutto questo discorso, che può piacervi o no, serve ad introdurre un libro che presenteremo mercoledì 28 dicembre ad Ozieri, al centro culturale San Francesco. Si intitola “Appunti di un emigrante”, è edito da Taphros ed è il diario di Giommaria Craboledda, un signore di cui avete già sentito parlare: è quell’ozierese ultranovantenne diventato ricco coltivando e vendendo peperoni in Francia, dagli anni sessanta in poi. In un capitolo di questo libro, Craboledda rovescia la comune visione dell’emigrazione e propone – neppure tanto provocatoriamente – un periodo obbligatorio all’estero per i giovani sardi. Secondo l’autore, vedere altri mondi è uno strumento indispensabile per apprezzare di più il proprio e per affinare le conoscenze che permettano di migliorarlo, quel mondo da cui provengono. Un Master and back che sostituisca il periodo di servizio militare, se con un esempio si volesse rendere più chiara l’idea. Per Craboledda l’emigrazione è un’opportunità, se non una ricchezza. So che è un punto di vista che farà discutere, ma so anche che quella di Giommaria Craboledda è un’opinione altamente qualificata. L’opinione di uno che ha vissuto all’estero per 67 anni e da pochi mesi, superati i novanta, ha deciso di tornare per sempre in Sardegna, senza essersi mai ritenuto vittima di quel che ha vissuto.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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