Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica (Siracide 30, 17) – Ciao Piergiorgio. Sai che ti pensiamo sempre? – Ciao Paolo. Grazie. Io invece finalmente non mi devo più occupare delle vostre cose così miseramente umane. – Beato te. Tempo fa ho scritto a Mina, tua moglie: siamo amici su Facebook. – Davvero? Sono molto contento. – Sì, anch’io ne sono orgoglioso. E le ho ricordato quella tua frase stupenda: «Com’è difficile vivere e morire in un paese dove il governo fa i miracoli e la Conferenza Episcopale Italiana fa le leggi». – Oggettivamente mi è venuta bene. – Credo che sia una delle cose più lucide che siano mai state dette dell’Italia. In ogni intervento pubblico che mi chiedono, la ripeto: per me è diventato una specie di mantra. – Ah, ah, ah! Ne sono molto lusingato. – Senti, adesso che non soffri più, adesso che, come mi hai detto, non devi più occuparti delle piccolezze che gli umani fanno, posso farti una domanda? – Certo. Uno dei lati positivi della mia condizione, ovvero quella di essere ormai solo un ricordo oltre che una voce su Wikipedia, mi rende capace di rispondere a tutto. – In verità la mia domanda è semplice: mi dici che cos’è per te la vita? – Semplice? Dovrebbe essere semplice! Questa domanda è semplice solo in apparenza, cioè nella struttura: la potrebbe porre anche un bambino. Ma se la fai a un capo religioso, a un capo di governo… ti distrugge ogni genuinità e ti complica tutto. In modo furbo ti rendono incomprensibile persino la «natura» con le sue meraviglie. Quindi, per rendere la risposta efficace e comprensibile, ti ripeto esattamente ciò che dissi quando ancora vivevo in quella condizione assurda in cui mi costringevano quelli che dicevano di amarla, la vita: per me la vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. La vita si riempie di questi piccoli istanti e come disse Cesare Pavese, quello che si ricorda, che ti segna dentro, non sono i giorni, sono gli istanti. Gli istanti che ti restano dentro: un sorriso di complicità, un abbraccio, un’emozione… – Sì, hai proprio ragione, ed è da queste parole che si capisce a fondo perché, a un certo punto, non ce la facevi più e volevi morire. – Purtroppo ciò che mi era rimasto non era più vita, ma solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive le mie funzioni biologiche. – Eh, vallo a spiegare a certi pacchiani individui che invece sulla sofferenza altrui si nutrono come avvoltoi ogni giorno. – Negli ultimi tempi, respiravo con l’ausilio di un ventilatore polmonare Eole 3xO, mi nutrivo di un alimento artificiale che si chiamava Pulmocare, e di altri alimenti semiliquidi, e parlavo con l’ausilio di un computer e di un software. Perché ormai ogni funzione muscolare che un tempo dipendeva da me, era inesorabilmente atrofizzata. – Sì, ma hai presente cosa ha detto il consiglio episcopale permanente?… – Ovvio, Mina me lo fece sentire. – Dissero che chi ama la vita s’interroga sul suo significato e quindi anche sul senso della morte e di come affrontarla. – Che coraggio, eh? Proprio loro! – E poi prosegue ancora: “Ma non cade nel diabolico inganno di pensare di poter disporre della vita fino a chiedere che si possa legittimarne l’interruzione con l’eutanasia, magari mascherandola con un velo di umana pietà”. – Si riempiono la bocca di parole come «pietà»… sapessero almeno cosa vuol dire. – Forse perché non lo hanno provato in prima persona. – La loro incapacità di provare emozioni è così calcificata che non se ne rendono neppure conto della cattiveria che c’è dietro queste parole. Ma che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che ti soffia l’aria nei polmoni?… In tutto questo la natura non c’entra nulla. Un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, non è un corpo naturale. È appunto qualcosa di mostruosamente «artificiale». E una morte artificialmente rimandata, se non ti permette di vivere come persona, non è una cosa che ti mantiene in vita. Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa giocare con la vita e il dolore altrui. Tu l’avresti mai chiamata vita quella? – No, Piergiorgio… no. – Lo so: è solo una questione politica di chi vuole avere il diritto di decidere sulla vita, e cioè sulla morte di ogni essere vivente. Per controllarlo e manipolarlo, per renderlo un perfetto automa nel meccanismo. – Se gli togli questo diritto, si sentono impotenti, anzi diventano impotenti e si svuotano. – Eh, ma non funziona così! Dovete lottare, dovete cercare a tutti i costi di fare una legge sul testamento biologico, sull’eutanasia. Guarda, ti racconto un episodio. Una mattina di novembre, io e mio padre andammo a caccia. A un certo punto, risalimmo un canalone spazzato dalla tramontana. Il terreno ghiacciato scricchiolava a ogni passo, il vento gelido faceva lacrimare gli occhi e le mani erano rattrappite sul fucile, e stavo pensando a quei paesaggi fiamminghi di Rubens. Dio che meraviglia!… Quando un fischio di mio padre mi riportò alla realtà. Diana, il nostro cane, era in ferma. Puntava qualcosa. Ci spostammo cautamente, cercando la posizione migliore, poi un frullo e due coppie di starne volarono da sotto il muso del cane. Mio padre abbatté in rapida successione la coppia che aveva piegato dalla sua parte. Io colpii la prima ma non riuscii a sparare alla seconda. Mio padre mi guardò esterrefatto. “Perché non hai sparato?” “Non ho potuto muovere il dito” risposi. “Sarà il freddo!” “No, papà”. Lo sapevano entrambe che non era il freddo. “È la distrofia”. Mi prese la mano tra le sue e la frizionò con forza. “Papà, sparami!” gli dissi. Non so neppure come mi uscì quella frase, ma la sentivo dentro, nel profondo. “Voglio morire in piedi e con il sole negli occhi, non paralizzato in un letto”. Mio padre si rifiutava persino di guardarmi negli occhi. “Piero, questo non puoi chiedermelo. Tutto, ma non questo”. “Se non posso chiederlo a te a chi dovrei chiederlo?” Mi abbracciò e disse: “Ti prometto che non morirai paralizzato in un letto”. Questo è quello che mi disse mio padre. – Cristo, ho i brividi e le lacrime agli occhi. – Ma è stato proprio così. – Ti ricordi come hai scoperto di essere malato? –Nel 1963, un medico mi disse: “Non supererai i vent’anni. Distrofia muscolare progressiva”. Ma, miracolosamente sono riuscito ad attraversare gli anni Settanta viaggiando per l’Europa. Le droghe, la pittura e la lettura mi hanno aiutato per un po’ a dimenticare il mio destino. Non sono morto a vent’anni, ma la malattia procedeva inesorabile. Negli anni Ottanta ci fu un ulteriore aggravamento; ormai non potevo più camminare. Poi incontrai Mina, nativa dell’Alto Adige, durante un viaggio parrocchiale a Roma ed è stato un colpo di fulmine. Mi sono innamorato subito, perdutamente. Ci sposammo e iniziai ad aspettare la fine, ma la fine non arrivava mai. Con l’aggravarsi della malattia, io e lei facemmo un patto: nel caso di una crisi respiratoria, non avrebbe dovuto chiamare soccorso per farmi ricoverare. Non volevo accettare la tracheotomia, un atto chirurgico cruento che mi avrebbe reso schiavo di un ventilatore polmonare. Nel 1997 ormai stavo diventando una larva: insufficienza respiratoria, l’ultimo stadio della distrofia. Un giorno persi i sensi e andai in coma. Quando mi sono risvegliato nella rianimazione del Santo Spirito, chiesi che era successo e capii che Mina non era riuscita ad accettare di perdermi, l’ambulanza aveva trovato tutti i semafori verdi, nessuna fila d’attesa al Pronto Soccorso, e avevo subito l’intervento. Così mi ritrovai tracheotomizzato. – Quando ti hanno negato il funerale religioso, Mina si è fatta sentire. Ha dichiarato su Repubblica: “Il cardinale Ruini non l’ha proprio capito mio marito. E io questa Chiesa che celebra in pompa magna i funerali di Pinochet accusato di tanti omicidi e li nega al mio Piero che voleva solo smettere di soffrire, non la comprendo. Mi sembra distante, sempre più lontana dalle parole di Gesù. Dogmatica e poco caritatevole, se non fosse per le parole del cardinal Martini che ha capito i problemi di chi è malato e soffre, della necessità di una legge”. – Tu non hai idea di quanto abbia amato quella donna! – Appena la sento su Facebook te la saluto. – Va bene, grazie. E dirgli di andare avanti così. – Sì, non ti preoccupare. Le facciamo forza tutti noi. – Ora vado, Paolo. Da quassù sembrate solo tante piccole formiche di un gigantesco ingranaggio. Quella perfezione però, se è vero che è di dio, non può dimenticarsi che ognuno di voi possiede un cuore. E che per pulsare ha bisogno della gioia di vivere. Che nessuna macchina può regalare.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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