“E io capisco questo: che Sardegna per me è finita, non l’avrò più mai, che è passata per sempre nel tempo della mia esistenza… è stata una mia indimenticabile vita. Come un’infanzia”. Elio Vittorini è nato il 23 luglio del 1908. E ne parlo per questo nell’Agenda di oggi. Vittorini dovrebbe essere soprattutto “Uomini e no”, la scoperta italiana dei grandi autori in lingua inglese, il Politecnico, l’antifascismo precoce e coraggioso, il Pci e la Resistenza, la rottura con Togliatti e lo stalinismo. Di queste cose dovrei parlare. Ma per me Vittorini è soprattutto il suo viaggio in Sardegna del 1932, pubblicato nel ’36, e la sua identificazione della nostra terra con un altrove reale, con una possibilità di vita meravigliosa come l’infanzia. E la sua visione umanizzante di una terra che diventa parte dell’esistenza la spiega nell’appendice, “Nei Morlacchi”, dove il racconto di viaggio si tramuta esplicitamente in poesia introspettiva: “Di generazione in generazione eravamo sempre noi. Anche il bimbo tornava bimbo. Ma si cambiò animo più volte. E accadeva di sovente che si andasse ad abitare altrove, per pochi mesi a ogni modo, e li credevamo inverni, erano tempi di mare canuto o di troppa luna”. Quanto mi hanno dato fastidio, alle volte, i “viaggiatori di Sardegna”, anche quelli più intoccabili, i passeggiatori ieratici delle nostre città e dei nostri campi, che hanno scritto paternamente indulgenti e qualche volta sdegnosi le loro cronache in partibus infidelium e che noi adoriamo nelle nostre università, nei nostri giornali e nelle nostre biblioteche. E quanto ho amato invece Vittorini e “Sardegna come un’infanzia”, che ho letto per la prima volta a sedici o diciassette anni, nell’edizione Mondadori che vedete riprodotta qui sopra. Erano anni, per me e per molti come me, e un’età, in cui la geografia esistenziale ci parlava più di Vietnam e roba simile che di Sardegna. Non so, alle volte i meccanismi di identificazione sono sciocchi, tutt’altro che finemente intellettuali. A esempio quell’approdo a Terranova, Olbia, con il “piroscafo”, come lo chiamavo anche io le prime volte che babbo e mamma a cinque o sei anni mi avevano fatto varcare il mare. O quando l’ho varcato per la prima volta senza di loro, nelle vacanze dalla terza media alla quarta ginnasio, in un viaggio a Roma con il mio amico Marco e cinque o seimila lire in tasca da diluire in una decina di giorni vitto e alloggio compresi. Che sciocchezza. Non è certo di questo che parla Vittorini quando forma una nuova categoria antropologica e poetica fatta di un’isola e continente che diventa infanzia. Ma volutamente equivocando mi sono sentito onorato che Vittorini eleggesse anche la mia infanzia, il mio piroscafo, a parte della sua, in questa Sardegna che aveva scoperto tanti anni prima. Sapete che cos’ha il viaggio di Vittorini rispetto a quelli di Cetti, Max Leopold Wagner, Lamarmora, Le Lannou, l’immaginifico Bontempelli e Lawrence e di tutti gli altri? Che non ha una visione entomologica del racconto. Non ci preleva, farfalloni sardi, per appuntarci con lo spillone nelle sue pagine. Per Vittorini il nostro tempo immutabile è davvero l’infanzia in una fisicità rivelata. Un altrove che piomba dentro di lui e che accetta con umiltà, gioia e malinconia. Gli stessi sentimenti che provo io per la mia terra, nonostante tutto.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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