Undici, come il numero della maglia di Gigi Riva. Undici, come gli anni che avevo nel 1970 quando in Mexico gli azzurri fecero l’impresa. Undici, come l’apollo che portò i primi uomini sulla luna, come il numero degli apostoli rimasti dopo l’ultima cena ed infine undici, come i giocatori disposti da una squadra in un campo di calcio. Potevamo disegnarcela, scriverla, immaginarla questa seconda partita dell’Italia ai mondiali in Russia cominciata la sconfitta contro la Corea. Potevamo piangere e rimpiangere, potevamo raccontarla come si racconta una campagna storica finita male, soprattutto da queste parti. Ed invece la cabala, il destino che si interseca tra il pallone e la vita ha costruito questo piccolo capolavoro che, per i tedeschi, diventa un incubo: Italia-Germania 4 a 3. Milioni di italiani hanno osservato in silenzio e con ansia una partita terribile e perfetta. Non era e non poteva essere identica a quella del Messico perché oggi non si sarebbero comunque giocati i supplementari. Però le condizioni c’erano tutte. Albertosi in porta, Facchetti a comandare la difesa con Gentile e Maldini. Il centrocampo in mano a Marco Tardelli, Roberto Baggio e Andrea Pirlo. Un attacco temibile e strano: Bruno Conti, Francesco Totti, Gianni Rivera e infine lui, Gigi Riva. Il numero undici. Non possiamo raccontare ciò che avete visto chissà già quante volte dentro i vostri smartphone, dentro i tablet e in milioni di replay; non possiamo raccontare quello che è successo su twitter con l’hashtag #italiagermania4a3 e #crucchidovetemorire. Non vogliamo raccontarvi tutti quelli che si erano infilati nella barca degli insulti a Bearzot e a tutta la squadra per poi iscriversi alla grande schiera di italiani festanti all’urlo di #bearzotsantosubito. C’è stato anche qualche piccolo insulto dentro un recinto piuttosto razzista: #Merkelfottiti e #Macronadessotrema,; però vogliamo raccontarvi dell’impresa, della leggenda dipinta con i colori di Van Gogh, con le pennellate imprevedibili di Pablo Picasso e le geometrie folli di Gaudì. Questa è stata Italia Germania del 2018 in terra di Russia. Questa è stata e questa poteva essere solo nell’immaginario collettivo di chi, come noi, erge il Dio del pallone a Dio vero e severo. Potevamo non andarci in Russia, potevamo perdere lo spareggio con la Svezia, potevamo restare lì, con lo sguardo assente senza poter ridere o sputare, inghiottendo rabbia e malinconia. Invece ci siamo andati e il dio dell’assurdo ci ha regalato prima la sconfitta con la Corea e poi la vittoria con la Germania; corsi e ricorsi storici: due volte sulla polvere e due volte sugli altari. A raccontarla non sembra vero e dovremmo quasi costruire un romanzo più che una cronaca di una partita noiosa per i primi quarantacinque minuti. Uno a uno. Gol di Totti e di Muller e tutti sotto gli spogliatoi. Poteva restare tutto così, poteva rimanere una semplice partita di calcio, una sfida infinita tra crucchi e mangiaspaghetti, ma Eupalla ha deciso di ridisegnare la storia, di consegnare questa partita ad Afrodite, la dea dell’amore e della bellezza, ha deciso che fossero i migliori artisti a disegnare la tela dentro una cornice quasi mitica ed impossibile. Una partita disegnata da un Dio dolcissimo e storico. Perché il vantaggio dei tedeschi è sempre di Gerard Muller, così come il 3 a 2 italiano è sempre di Gigi Riva, ma il momentaneo pareggio del 2 a 2 è di Roberto Baggio. A questo punto tu pensi: mica le cose si possono ripetere. Solo i sogni e le leggende possono ritornare e hanno il dono di poter essere raccontate per sempre. Come Italia-Germania 4 a 3 di Messico 1970 che ancora oggi tutti insistono nel voler dire la loro storia appiccicata come una patella allo scoglio di quella immensa partita. Ma le cose non si ripetono perché la ragione prima o poi fa capolino dentro la leggenda e riporta tutto all’attualità e alla storia. Finirà così: Italia-Germania 3 a 3. Ed invece Bearzot si inventa la staffetta. Esce Rivera entra Zola. Poi me la dovete spiegare la storia del tamburino sardo raccontato nel libro cuore. Me la dovete raccontare quella leggenda che vede magic-box rubare la palla a Vogts, saltare come d’incanto Schulz e trafiggere con un pallonetto morbido, dolcissimo e magnifico, il grande Sepp Maier. Italia 4, Germania 3. Cazzo. E’ l’unica espressione che chi ha intorno a sessant’anni è riuscito a coniare. Tutto poteva accadere a Russia 2018 ma non che la leggenda si ripetesse, che molti degli uomini che avevano fatto l’impresa riuscissero a riproporre quello strano scherzo del destino. Come riuscire a fregare i troiani una seconda volta con il cavallo di legno. Non ci sarebbero cascati. Ed invece i novelli Ulisse ce l’hanno fatta: hanno riportato l’orgoglio in un’Itaca che pareva scomparsa, dimenticata. Tutto sembra impalpabile, tutto sembra soffice e dolcissimo. Francesco Giorgioni, inviato insieme a me in Russia per Sardegnablogger, quasi non ci crede. Ma lui è troppo giovane e non sa nulla del Messico e di leggende. Questa nuova vittoria dell’Italia con la Germania non sembra neppure vera. Un sogno da raccontare ed abbracciare, tra una bottiglia di vino e un piatto di pelmeni, una sorta di tortellini ripieni di carne conditi di pepe nero, ricetta tipica russa. Siamo rimasti in undici a ridere e cantare in uno dei peggiori bar di Mosca dove siamo rientrati a festeggiare. Undici come il primo numero maestro. Dopo 48 anni la cabala ridisegna l’universo: Italia Germania è sempre 4 a 3. E da questo sogno soffice e vaporoso lascio la linea a Francesco Giorgioni che vi racconterà come questi uomini che hanno fatto l’impresa continueranno il mondiale in Russia. Spagna 82 non è poi così lontana.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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