Nei due passi tra l’essere stato un bambino e il diventare un ragazzo, ho anche pensato di farmi prete. Non è stato il galoppare scomposto degli ormoni a farmi desistere.
Sentivo soffocante come la stretta al collo di due mani da muratore il pensare alla vita come ad una gara ad accumulare denaro, attraversarla col chiodo fisso di impilare uno sull’altro, quanto più fosse possibile, tondi di metallo o fogli di carta che i grandi chiamavano soldi. O forse ero solo, già da allora, troppo pigro. Nello stesso tempo mi affascinava la funzione di un parroco nella comunità, il suo rinunciare a tutto per non rinunciare a niente.
Il parroco fiutò in me una possibile vocazione e per un po’ cerco di assecondarla.
In seconda media ci capitò per un periodo un professore di religione. Io lo vedevo come il corrispondente laico, a scuola, di quel che il prete era per il paese.
Lo ricordo secco, coi capelli ricci e gli occhialini dalla montatura rettangolare, la bocca una linea appena accennata con un tratto leggero di matita. L’ho archiviato nella memoria ingessato dentro una giacca di lana pelosa, a quadretti rossi e neri, così antiquata da apparire ridicola anche al ragazzino che ero.
Teneva in pugno la classe come un domatore le sue bestie da circo. Non possedeva nulla che fisicamente potesse incutere soggezione o timore, ma a me facevano paura i suoi modi formali, la sua freddezza, il rifiuto di un sorriso o di un gesto benevolo che potesse stendere, tra lui e noi, il ponte dell’affetto.
Nel portamento e nei toni ostentava una essenzialità che ai miei occhi pareva priva di ogni passione. E ogni gesto pareva orientato a raggiungere un risultato immediato, nella sua visione delle cose.
Non credo lo facesse per male. Era certamente convinto fosse il modo migliore per compiere nel modo più efficace il suo dovere di insegnante.
Sono passati trent’anni e ancora ricordo brandelli delle sue lezioni. E non so neppure perché me le ricordi.
Ci spiegò che a messa, alla domenica, bisognava andarci per il solo piacere di sentirsi sollevati dall’avere assolto all’obbligo, al momento dell’uscita dalla chiesa. “Non è vero che ci si sente più leggeri, dopo?”. E tutta la classe rispose che sì, ci si sentiva più leggeri: chi dopo la messa aveva il permesso e le monete per prendere la brioche al bar della Piazza, chi le figurine Panini all’edicola all’angolo, chi i soldatini. A me questo piacere indotto dal sospiro di sollievo, all’andate in pace, lasciava dubbioso: “Come se uno si facesse arrestare per poi apprezzare il gusto della libertà” pensai subito.
Poi venne il giorno.
Interrogò un compagno chiedendogli di ripetere il passo del Vangelo in cui Il bambino sussulta nel grembo di Maria, in visita ad Elisabetta. Il mio compagno disse che “Maria era incinta”. Lui lo interruppe. Le sopracciglia s’inarcarono incattivite, il suo corpo s’irrigidì in una postura marziale, anche la bocca invisibile parve incresparsi. “Non devi dire incinta. Si dice che una donna è in stato interessante. D’ora in poi, per indicare una donna in attesa, direte che è in stato interessante. Intesi?”. Le parole gli uscirono di bocca più gelide e inappellabili del solito.
L’alunno non capì e si sentì mortificato da quell’osservazione severa e immotivata. Tra noi era tutto un incrociarsi di sguardi, di occhi negli occhi, occhi che domandavano ad altri occhi che non sapevano rispondere.
Io non potevo sapere dei tabù nascosti dietro quell’eufemismo, ma vissi come una forma di violenza la coercizione del linguaggio tentata dall’insegnante. Mi nascondevano qualcosa dietro una barriera di parole contorte. Ci sono cose che forse i bambini non sanno di sapere. Ne restano feriti senza capire il perché. A me di essere obbligato a dire che una donna col pancione era in stato interessante sembrò quasi un’intrusione nell’intimità della famiglia: babbo e mamma mi avevano insegnato che una donna era incinta, non in stato interessante. Non poteva essere una parolaccia.
Ci rimasi male, come se un’onda avesse inghiottito il castello di sabbia che faticosamente avevo costruito sulla battigia. La mia vocazione era fragile quanto quel castello. E da quel giorno mi passò.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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