La presentazione di un accuratissimo documentario, l’occasione per parlare di Sardegna con l’autrice, nata a Roma da madre sarda e padre italo/australiano, guardando l’isola attraverso i suoi occhi.
Occhi che si rivelano, ancora una volta, più sardi di quanto potessi immaginare, ma lo immaginavo. Già, forse perché la sua storia è un po’ la mia.
Mio padre, classe 1918, era nato a Montaldo Bormida, in provincia di Alessandria ed era nato orfano, mio nonno era morto un mese prima che nascesse e mia nonna, sua madre, di parto. Fu quindi affidato alle cure di un istituto e per lui la mamma ed il papà erano le suore di quell’istituto, i fratelli gli altri sfortunati come lui presenti in quell’edificio dal quale raramente uscivano, dove studiò sino alla quinta elementare [che corrispondeva allora ad un diploma di secondo grado di oggi] ed imparò, subito dopo, il mestiere del sarto. Mia madre sarda da generazioni “intere”, Satta, stesso cognome e origini della mamma dell’autrice, Lisa Camillo Satta. Ma tutto questo non fa di me un “meticcio” e vi spiego perché.
A soli sedici anni da quell’istituto ne uscì per indossare una divisa militare, le caserme diventarono la sua casa. E visto che era “studiato”, la carriera militare lo portò al grado di sergente proprio nei giorni in cui scoppiava il secondo conflitto mondiale. Fu ferito a Cassino e, dopo un periodo di convalescenza, dato che si dimostrava alquanto ostile tanto al regime quanto a quella che chiamava “una stupida guerra”, venne spedito in Sardegna, “per punizione”. Così pensavano. Fu qua, che si sentì finalmente nascere, una seconda volta, dove trovò la sua vera identità e scoprì finalmente l’amore disinteressato e profondo per una patria che per lui era quest’isola. Un amore ed un rispetto che riuscì a tramandare anche a me, senza dottrine o regole ma semplicemente permettendomi di vivere di questa terra aspetti, paesaggi e cultura per lui e per me fondamentali, incarnati. Risvegliando una parte di me che non sapevo esistere, la mia Identità. Ecco perché mi fanno ridere (forse più piangere) quanti la denigrano, cercano di renderla “superficiale e poco importante” sotterrandola sotto il fatto che siamo italiani, non è così. Non oltre il mero dato anagrafico/burocratico. Io sono sardo, perché è qua che ho capito la mia vita, mi diceva, prima di allora non sapevo chi fossi se non uno che aveva sempre fatto quello che gli ordinavano, dal convento alla caserma. E mio padre era un uomo libero, sardo quanto e più di molti sardi nati e vissuti qua, magari in città. A casa parlava in sardo con mia madre, aiutandomi ad apprenderla ed usarla, la nostra lingua, ecco perché la ritengo importantissima ai fini identitari.
Parlando di tutto questo con Lisa, lei ha portato l’esempio degli aborigeni australiani, che ancora oggi dimostrano, anche in individui che hanno percentuali bassissime di sangue indigeno, una forte connotazione identitaria, persone dai lineamenti e carnagione chiaramente “yankee” che si sentono e sono aborigeni a tutti gli effetti. Abbiamo parlato di come questa pulsione identitaria si manifesti spesso nei sardi che per una qualsiasi ragione lasciano l’isola, che partono anche per brevi periodi, di quella malinconia che ci coglie nel vedere dal mare la nostra casa allontanarsi, di quanto ci manchi, costantemente, quando siamo lontani. Tutti indizi di una identità che, stranamente, in troppi non riescono ad esprimere, a tirare fuori stando qua. Forse perché “tranquillizzati” dal fatto che qua, ce lo ripetono sin da piccoli, siamo tutti italiani, “cittadini del mondo”. Ed in effetti siamo anche questo, anche, ma non solo e non certo prevalentemente. Questo fatto di dovere essere altro, qualcosa e qualcuno all’apparenza “migliori”, fa si che si manifesti palese una forma di razzismo stranissima, quella che si vergogna appunto della propria identità. Quella che per lunghi anni ha fatto negare (ed ancora accade) a moltissimi giovani che si spostano per studio o per lavoro dai loro centri, dai paesi verso le città, la loro vera provenienza, che gli ha fatto mettere da parte la lingua che sino al giorno prima usavano con tanta naturalezza e padronanza. Un danno incredibile e devastante. Il vergognarsi di un padre pastore o contadino invece di esserne fieri, questo dimenticare usi, costumi, colture e culture formatesi in secoli di assoluta ed endemica convivenza con l’ambiente e le stagioni, con i ritmi ed i tempi che tutto questo imponeva.
Oggi corriamo come i milanesi, stressati e sempre in ritardo rispetto a non si sa bene cosa, mangiamo come gli emiliani o gli spagnoli perché loro sono molte delle colture che ci ritroviamo ad acquistare sui freddi banchi del marketing. Ci esprimiamo come gli italiani ma a modo nostro, perché quell’identità pulsa in noi anche se facciamo finta di non sentirne il battito. Corriamo appresso a sogni industriali che si son rivelati incubi, di quelli tosti, i cui effetti sono ancora lì e ci resteranno per chissà quanti altri secoli, eppure aneliamo ancora a tutto questo. Abbiamo resi pittoreschi i nostri costumi e li abbiamo incatenati in processioni e manifestazioni dal sapore farsesco di dominazioni ed usanze straniere, tribù di sardi in costume che sfilano per mostrare al turista quant’è bella la nostra terra, appresso a carretti dove statue di legno sono venerate come Dei mentre la vera manifestazione di una eventuale “entità superiore”, il “Creato”, lo distruggiamo ogni giorno di più. Quei costumi li riponiamo nella naftalina sino alla sfilata seguente, alla successiva allegoria del nostro essere e non essere.
Del non capire chi siamo e cosa potremmo essere, se solo avessimo il coraggio di indossarla, ogni giorno e in ogni circostanza, la nostra vera identità ed invece ci facciamo trovare nudi, sempre, e continuiamo a somministrarci dosi assurde di questo razzismo che, alla fine, è a noi stessi, alla nostra vera interiorità che è rivolto. A quel seme che è dentro di noi ma al quale impediamo di germogliare e di crescere ed al quale, sono convinto, documentari e progetti come “Balentes” della sardo-australiana Lisa Camillo Satta potrebbero servire così come l’acqua serve ad ogni essere vivente. Per ora ho visto solo il trailer, una breve ma intensa manciata di minuti dove Lisa è riuscita a concentrare la spirale imprevedibile, eppure prevista e predetta, di una Storia, una Cultura ed un Popolo che si sono ad un certo punto persi ed oggi paiono non sapere più come ritrovarsi. Lo fa spalancando la strada ad un sogno, una aspirazione che qualcuno insiste pigramente a chiamare utopia ed invece è lì, alla portata di mano di tutti noi. Che ci ostiniamo a cercarla fuori, invece l’abbiamo dentro, nel profondo, soffocata da questa atavica insicurezza, dal costante bisogno di guardarci con occhi di altri ed essere per questo sempre diversi, distanti da quello che siamo, lontani da quello che potremmo e, lo penso io, dovremmo essere davvero.
Ma io, si sa, sono un sognatore, but i’m not the only one… (John Lennon)
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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