A distanza di un mese siamo tornati sul posto.
C’era più freddo dell’altra volta. Più fredda l’aria e più increspato il mare. La mattinata marcava male. Palle che girano, lavori che saltano, pratiche bloccate. La vita, però, dice questo. Quella che va vissuta, l’unica. Quella che ogni tanto ti apre una finestra e ti dice: affacciati, esci, prendi aria, togliti dalle balle. E dunque, Spargi. Anche sul gommone abbiamo avuto qualche rogna: bucata la pompa per travasare il carburante, rotto l’imbuto del serbatoio secondario. Roba semplice, però, tutto un altro sapore. In questi casi si taglia una bottiglia, si trasferisce il carburante e si parte. Fanculo la sfiga.
Anche stavolta, gommone a Cala Canniccio e partenza per Casa Natale. Neanche trenta metri e cominciano le cose serie. Mentre pisciavo (può essere faccenda seria) butto l’occhio a destra e vedo un biacco acquattato sotto un muro. Chiamo gli altri e Fabio (che stava pisciando anche lui), si sistema alla meglio e corre a prendere la macchina fotografica. Fabio è il fotografo di questa equipe informale. Fotografo vero. Vanta numerosi tentativi di imitazione ma, a differenza della settimana enigmistica, non cambia faccia ogni settimana (purtroppo per lui).
Il biacco è pigro. Se ne sta un po’ in posa mentre spostiamo il cisto che secondo lui lo nascondeva. Riusciamo (riesce) a fare un paio di scatti ma poi quello si rompe le palle e se ne va. Si infila come una biscia tra le pietre del muro e sparisce.
Si riparte.
Altri cento metri e vedo (non c’è bisogno di essere scienziati) un anfibio, un rappresentante dell’erpetofauna locale, insomma, un rospo. Smeraldino, per la precisione. Niente a che fare con Al Thani; si chiama smeraldino per il colore di alcune screziature del dorso. A dire il vero ha rischiato di morire. Camminando c’era finito sopra con la mia stessa ombra; non fosse stato per il mio occhio da ehm… scienziato, avrei potuto schiacciarlo senza meno. Invece, che culo, si è salvato.
Lo fotografiamo in tutte le posizioni che manco una pornostar, e alla fine lo lasciamo tornare verso l’acqua.
La giornata si è aggiustata alla grande. Inizia a fare non caldo ma quasi. Giriamo a sinistra e iniziamo a salire, facendo un’altra sosta al pozzo che c’è sulla destra. È scavato nella roccia, e a giudicare dalle pozzanghere che troviamo in superficie mi aspettavo di trovarlo pieno. Invece è completamente vuoto. Sia di acqua che di pipistrelli, tra l’altro.
Ripartiamo per la zona alta dell’isola e questa volta non giriamo per Punta Banditi ma andiamo direttamente verso lo stazzo di Natale Berretta.
L’altra volta eravamo tornati a casa felici ma con le pive nel sacco. Volevamo chiudere un percorso e non ci siamo riusciti. Da un certo punto in poi la macchia si è mangiata il sentiero che collega Natale con Zanotto, e l’altra volta, dopo una serie di tentativi anche abbastanza faticosi (la macchia sviluppata non è facile da attraversare, ma manco un po’), prima che ci prendesse il buio avevamo deciso di tornare indietro. Se digitate su google “Nimphaea, Sardegnablogger” vi compare l’articolo dove lo racconto. Questa volta abbiamo voluto ritentare. Quindi ci siamo guardati lo stazzo da lontano, e abbiamo puntato verso ovest. Arrivati sotto Punta Becchi ci siamo fermati a mangiare un boccone. Da lì si vede un panorama incredibile. So di essere ripetitivo, scusate, ma credo sia uno dei punti più belli dell’Arcipelago. Una conca di macchia bassa e rada, piena di elicriso che detta legge a tutti gli altri odori mentre l’occhio rimbalza tra Santa Teresa e Bonifacio e tutto intorno c’è un silenzio bestiale. Vi dico solo che è da vedere.
Dopo il panino facciamo un paio di tentativi, più speculativi che agonistici, di buttarci lungo una scarpata o in alternativa un canalone che scendono verso un’altra radura. Ma niente. Passare là dentro significa squartarsi gambe, pantaloni, zaini e forse qualcos’altro. Quindi optiamo per tornare al sentiero e avvicinarci alla zona dove la volta scorsa avevamo perso le tracce del camminamento e ci eravamo arresi. Ovviamente, come sempre, non abbiamo né carte, né bussole, né GPS. A La Maddalena c’è questa mentalità, questa idea per cui in fondo, per entrare in relazione con l’ambiente delle isole la tecnologia non serve. Anzi, se qualcuno si azzarda ad affrontare questi sentieri con qualcosa di più tecnologico delle scarpe, di solito viene schernito con supponenza. Per noi è un po’ come il colesterolo. Sai che fa male, ma cosa fai, ti privi del pecorino e della salsiccia? E quindi, niente orpelli.
Infatti l’altra volta abbiamo fallito.
Ma stavolta non ce lo potevamo permettere. Anche perché ho avvisato gli altri due che avrei comunque scritto un resoconto, e quindi era meglio darsi da fare. A proposito della comitiva, di Fabio vi ho detto; il padrone del gommone è Marco. Poi c’era un assente ingiustificato, che per pudicizia sua non nomino.
Arrivati alla fine del sentiero visibile, ci si presenta davanti il solito prato delimitato dalla macchia. Questa volta lo troviamo devastato dai cinghiali. Non c’è un palmo che non sia stato arato dai musi di quelle povere bestiacce. Continuo a sostenere che sia da idioti introdurre una specie in un’area in cui si sa che non potrà sopravvivere e sarà costretta ad estinguersi, non prima di aver portato con sé altre specie e altri ambienti, straziandoli per cercare un cibo che non c’è.
Ci lasciamo inghiottire ancora dalla macchia. Che si fa sempre più alta e fitta. Ci orientiamo con l’acqua. Cerchiamo di camminare vicini ai ruscelli anche perché in alcuni tratti si tratta comunque di percorsi semiliberi. Il punto è che bisogna farlo senza infilarci i piedi o peggio le ginocchia. Trekking si, ma Rambo no.
E comunque il sentiero non salta fuori. Sappiamo che c’è e che è vicino, perché vediamo a poche centinaia di metri i ruderi della vecchia postazione militare, i recinti, i muri. Un percorso li collegava tra loro e con la casa di Berretta. Ma la pelle che Spargi si è giustamente rifatta in assenza dell’uomo, lo ha completamente occultato. In quel momento, quasi convinti che forse è il caso di tornare un’altra volta, a Fabio squilla il telefono. È Andrea, che a Spargi ci ha vissuto. Essendo in mezzo al nulla non riusciamo a dargli il punto esatto (ricordatevi che ignoriamo l’esistenza del GPS); tuttavia lui ci dice che il sentiero passa a trenta metri da una certa garitta in posizione piuttosto bassa, ma utile perché inquadra un tratto di mare importante. Fabio ripete ad Andrea quello che gli ha detto, giusto per essere sicuro di aver sentito bene (sapete, non c’è molto segnale, ogni tanto entra la rete francese, e poi Fabio ha un’età…), io capto un pezzo di discorso, mi giro verso la garitta (sta a cento metri) scavalco un paio di rocce e, magia, miracolo, vaffanculo, raggiungo il sentiero. Era lì, bello largo e pulito. E stava aspettando noi. Cominciamo a darci dei coglioni e a ridere appunto come se lo fossimo. E ne percorriamo un tratto in direzione di Zanotto. Ma ormai non c’è nessuna fretta, ormai è lì e non ci scappa più. Tornando indietro ci rendiamo conto di cosa è successo. Il sentiero esiste eccome, ma gli occhi non se ne possono accorgere. Se ci cammini sopra non lo vedi, non vedi le tue gambe, affondate nei cespugli che arrivano alla cinta, ma cammini lo stesso perché sotto la superficie delle chiome non ci sono ostacoli. È divertente. Perché nei punti in cui la macchia sparisce e torna la radura, ti giri e non vedi più il sentiero da cui sei appena uscito. È come un incantesimo. C’è, sai che c’è, è lì, l’hai appena calpestato, ma non lo vedi. Decidiamo di non fare gli stronzi e, ogni volta che torniamo sull’erba, raccogliamo delle pietre e costruiamo i segnali per indicare il passaggio. Sembra un gioco. In realtà c’è da farsi male. Capita anche qui che qualcuno si perda, ogni tanto. E non è comunque uno scherzo. E allora, diamo una mano ad altri matti cha avranno voglia di passare di qua. Spargi e l’uomo possono ancora andare d’accordo.
Mi piace pensarlo, almeno.
Insomma, ormai ci siamo riusciti, e decidiamo di rientrare. Un’ora a passo svelto e siamo di nuovo al gommone. Rientrando ci fermiamo davanti alla chiesetta dei pescatori per scattare qualche foto. C’è un tramonto che non ammette repliche, una luce radente si infila tra il mare e le nuvole e infiamma tutto quello che tocca. Le rocce sono rosse, la chiesetta brilla come uno specchio d’oro. Il mare sotto di noi si muove lentissimo e col suo peso lambisce i bordi di quel mondo perfetto.
La vita fa scherzi strani, a volte.
Io, per esempio, sono nato in paradiso.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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