“Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli”. E ora cos’altro scrivo per parlare di Carlo Levi? L’altro giorno in un dibattito in cui si discuteva di traduzioni, un grande italianista mi ha detto: “Certi testi non possono essere neppure sfiorati. Come fai a rendere in altra lingua l’Infinito di Leopardi?” . Voleva dire che ogni sua parola è parte perfetta di un tutto perfetto. Io penso la stessa cosa di queste righe struggenti tratte da “Cristo si è fermato a Eboli”, il capolavoro dello scrittore nato il 29 novembre (è per questo che oggi ne parliamo nella nostra agenda) del 1902. Trasmettono un messaggio complesso, perché non è fatto solo di estetica narrativa, altissima, ma anche di antropologia, di storia e di politica, tanta politica, quella vera: delle ideologie e delle passioni. Einaudi lo pubblicò nel 1945. Levi, oppositore del Fascismo, vi racconta il suo confino in Lucania alla metà degli anni Trenta. Ad Aliano, che nel libro chiama Gagliano, visse su di sé il senso profondo della “Questione Meridionale”, che Levi elesse a simbolo di un’Italia irrisolta, mai unita, giudicandola sino alla sua morte, avvenuta nel 1975, una “questione” destinata a restare tale anche nell’era che già cominciava a chiamarsi della globalizzazione economica e culturale. In quel confino capì quanto fosse incolmabile la lontananza di quelle terre dal mondo moderno, da una civiltà che identifica con Cristo. E richiamando un detto del luogo, scrive che Cristo si è appunto fermato a Eboli, molto più a nord di questo Meridione separato dal mondo: “Lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono… La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura”. E’ uno dei più bei libri della storia della letteratura italiana ed è probabilmente la più alta e nobile riproposizione della Questione Meridionale in epoca contemporanea. Il meridionalismo entrò in crisi proprio negli anni della morte di Carlo Levi. Anche la sinistra lo ha ripudiato, nonostante il divario tra Nord e Sud sia cresciuto senza interruzioni, sino a riconfermare l’esistenza di quelle “due Italie” di cui parlò un secolo fa il meridionalista Giustino Fortunato. Negli ultimi decenni, nonostante la crisi dello Stato-nazione provocata dai processi di globalizzazione e la possibilità di scavalcare l’Italia per rivolgersi direttamente ai mercati economici e culturali europei, il Sud è rimasto isolato. Esistono sempre più due Italie: per il tasso di disoccupazione, per il modo di vivere e di lavorare, per la qualità delle infrastrutture, specialmente dei trasporti. Anche nel campo politico la scomparsa dei partiti di massa ha riportato alla ribalta i poteri locali in una cultura provinciale della politica. I pochi tentativi seri, quale la contrattazione programmata del primo governo Prodi, non hanno avuto seguito. Il grande problema della criminalità organizzata, sino dall’Ottocento pronta a sostituire il potere di uno Stato giudicato lontano e ostile, non è stata risolto anzi assume ogni giorno nuovi e inquietanti risvolti. Insomma, la situazione oggi non è molto differente da quella che Gramsci descriveva in alcune sue Lettere dal Carcere, attribuendo le responsabilità alla classe dirigente italiana: «Perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire quei bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. Se non si possiede questa forza di drammatizzazione della vita, non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzino le necessità della vita con le disponibilità dello Stato». Gramsci lo scriveva nella galera fascista, ma oggi c’è la democrazia, una democrazia apparentemente solida. Eppure quella forbice sempre più larga dimostra l’attualità delle accuse del grande pensatore comunista: se voi ritenete che la Questione Meridionale sia un problema locale, state bloccando non il Sud ma tutta l’Italia. Il Meridione è tutto il Paese, nel bene e nel male. E l’Italia può guarire e crescere solo tutta insieme. E forse, parlando di marce diverse nello sviluppo, di città metropolitane e di ingiusta distribuzione delle risorse all’interno della nostra isola, bisognerebbe ripensare a questo discorso gramsciano. Non esiste uno sviluppo della Sardegna se non è lo sviluppo di tutta la Sardegna.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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