Con questa faccenda di Manduria, mi è venuto un brutto pensiero e ho chiamato il mio amico Tore Sanna
-E allora Trapadè?
-No, stai tranquillo, non c’era cattiveria. Se si sfotteva Trapadè era per udire il suo insulto di risposta, non per fargli male.
A Tore ho telefonato perché è il maggiore esegeta di Trapadè e del suo mondo. Che era anche il nostro. E non lo dico ironicamente, perché il mio amico ha compiuto su questo eroe della prima guerra, divenuto poi un barbone, una ricerca negli archivi e nelle memorie orali di mezza Italia e ha ricostruito la sua straordinaria esistenza. E leggendo in questi giorni di quel luogo dove i ragazzini perseguitano a morte gli emarginati nel silenzio accondiscendente del prossimo, mi sono chiesto se anche la mia Sassari fosse così. Non è che Tore mi abbia assolto del tutto, ma mi ha spiegato che Trapadè era una maschera e che quel rimando di insulti tra lui e i pizzinni pizzoni era una sorta di commedia dell’arte, dove vittima e carnefici interpretavano un ruolo interscambiabile.
Leggo su un numero della Nuova Sardegna degli anni Cinquanta un “Caffè” di Frumentario: <<Fra i divertimenti di certa ragazzaglia sassarese dei nostri giorni, affabilmente assecondata da taluni “grandi”, è la croce imposta a uno sventurato, mutilato di guerra, che al suo apparire viene salutato da un soprannome ritmato in coro.Ho sentito persino degli autisti fare eco con le loro trombette all’incoscienza di questi ragazzi. Purtroppo lo sventurato è un iracondo che replica con tutto il vocabolario delle ingiurie correnti o riesumate, nelle quali sono colpiti gli ascendenti diretti, fino a più generazioni, di coloro che gli danno la baia. E’ uno spettacolo indecoroso che segnalo agli agenti perché è una chiara violazione del diritto alla quiete privata tutelata dalle leggi. Ma soprattutto lo segnalo alla cittadinanza come manifestazione fra le più caratteristiche del formarsi di quella tradizione dell’ineducazione, perfino del gangsterismo, che tanto poco si confà alla civiltà di un popolo serio e al sempre meno vibratile senso dell’umanità e della bontà dei sassaresi>>.
Eppure Frumentario doveva sapere bene che di quella “ragazzaglia sassarese” era esponente attivo anche un suo parente, cioè io. Non penso che il grande giornalista ritenesse che questo suo nipotino fosse un gangster che concorreva al calo di vibratilità del senso dell’umanità e della bontà dei sassaresi. E, se vogliamo dirla tutta, io stesso ricordo mio zio riferire tra grandi risate alcune delle risposte argute e screanzate delle quali Trapadè gratificava chi lo molestava proprio per solleticare la sua beffarda sagacia.
Io non sto giustificando nessuno.Io voglio soltanto dire che la compassione, la misericordia, il senso di giustizia, la stessa etica intesa in senso generale, non sono strade asfaltate con le strisce ben tracciate ai lati e sulla mezzeria, i semafori e le rotatorie, i sensi unici e tutta quella roba lì. Specialmente quando si parla di gente che abitava nei sottani. Oppure a ridosso dei sottani come era il mio caso, che ero l’unico della mia greffa che per tornare a casa dovesse salire un piano di scale e non varcare una porta sulla strada che dava su una grotta lunga e scura dove qualche volta l’unica fonte di luce era proprio la porta.
Io in quei primi anni della mia vita ho avuto uno straordinario imprinting che durerà sino all’ultimo giorno della mia vita. Quello di considerarmi straordinariamente fortunato per essere venuto al mondo in quella casa di Piazza del Comune anziché a dieci metri di distanza, in uno dei tuguri di cui allora erano costellate le vie lì intorno.E questo imprinting, oltre ad avermi reso irrimediabilmente comunista (da questo punto in poi quelli che il 25 Aprile è un derby tra comunisti e fascisti possono anche smettere di leggere), mi insegna a capire e a distinguere gli eccessi o le mancanze di compassione, misericordia, senso di giustizia, etica in generale e tutta quella roba lì. Si stava in strada, soprattutto. E questa educazione molto generalista, nel corso della quale si conosceva la gente non soltanto a scuola o a judo o a basket o a inglese, ti faceva crescere un po’ di pelo sullo stomaco ma ti insegnava anche il vero senso della pietà, delle misericordia e compagnia cantante.
Facciamo bene ad applaudire Tore Sanna che ha suscitato questo straordinario movimento di “recupero” della figura di Trapadè, un eroe di guerra disgraziato e misconosciuto al quale la città deve chiedere scusa. Un movimento che forse porterà a erigere un meritato monumento a questo popolare eroe della miseria, a questo brechtiano Mackie Messer. Trapadè va riscoperto e riconsiderato nel modo che Tore, con la sua sensibilità umana e politica e con i suoi studi, ci suggerisce.
Ma anche chi oggettivamente ha appeso una ruota da mulino al collo di Trapadè, affrettandone la caduta nel gorgo della miseria, va giudicato con attenzione forse addirittura antropologica.
Una cosa è il disprezzo delle classi superiori che giudicavano disdicevole lo spettacolo di questo ubriacone che spingeva irresistibilmente la brava gente al dileggio. Un disprezzo sociale verso il fastidio provocato da questa presenza, ingombrante e perenne atto di accusa contro il mito di una guerra e di una vittoria che hanno creato nell’immediato soltanto morti e mutilati di corpo e di spirito e in prospettiva le condizioni per una dittatura e per un’altra guerra ancora più raccapricciante. Altra cosa è il suo vivere in una città beffarda e ancora povera – molto povera, nonostante i miti del boom degli anni Cinquanta e Sessanta – dove chi lo sfotteva non abitava poi molto lontano dal “magazzeno” dove la notte l’ex eroe vagabondo tornava ubriaco a sbattere per terra le sue ossa. Gente che sapeva in cuor suo che il giorno dopo, per un rovescio della sorte, avrebbe potuto prendere il posto di Trapadè.
Cosa voglio dire? Qual è la soluzione? E cosa ne so? Non sono mica uno di quelli che vanno su Facebook a insultare la gente che non la pensa come loro o a dire qual è la verità rivelata.
Vi dico, o vi ricordo, soltanto che Trapadè non era l’unico. Era forse il più famoso di mille tipi, di mille maschere, che erano l’espressione di una Sassari che giustamente vogliamo seppellire nella nostalgia dolce dei ricordi innocui, perché sarebbe insopportabile prendere coscienza del fatto che molti di noi, forse tutti noi, abbiamo portato acqua al frantoio del dileggio nei confronti dei disgraziati, delle macchiette che oltre a soffrire per i fatti loro avevano anche il dovere di farci ridere. Ce n’erano mille senza nomi famosi. C’erano vicino a casa mia una moglie e un marito che ogni giorno si azzuffavano per la strada lanciandosi martelli e barattoli di colla (lui quando non era ubriaco faceva il falegname). Erano diventati un passatempo, erano buffi. Io non lo ricordo, ma mi raccontavano ridendo che una volta mia madre, quando avevo dieci anni, per fare svagare un pochino la mia sorellina di due anni costretta a stare in casa perché a quell’età non poteva scendere da sola in strada, mi incaricò di accompagnarla ad assistere alla quotidiana lite.
-Tienila stretta per mano e quando cominciano a tirarsi roba guardate da lontano.
Credete che mia madre fosse una malvagia incosciente? Neppure per idea. Quella era la vita.Mia madre provava compassione per quella coppia, si sarebbe tolta il pane di bocca per aiutarla, come spesso ha fatto, ma insieme non sfuggiva al rassegnato effetto comico che la loro disgrazia suscitava.
Come è possibile? Misteri di Sassari.
E questo era il mio mondo piccolo che vi racconto così come era, con tutto il rispetto per le convenzioni, per la storia e, ve lo giuro, soprattutto per Trapadè.
Eravamo anche crudeli, nell’incoscienza e ogni tanto anche in coscienza. Ora mi capita di farmi pungere da una vespa perché nel cacciarla via sto troppo attento a non farle del male, ma allora ammazzavo i passeri con la fionda e se una rondine dalle ali troppo lunghe non riusciva a spiccare il volo dal muro del terrazzo dei miei nonni, correvo a prendere il gatto perché la catturasse. E credo di non essere l’unico che pensando alla sua infanzia abbia roba così da rimproverarsi. Ma dalle mie parti quando dalla cionfra si passava a manifestare questa crudeltà, scattava inesorabile e severo il controllo sociale. Non c’erano madri o padri o zii che ti giustificassero. Se qualcuno non accettava i circonvoluti aforismi di Trapadè, che stavano in sostanza a significare che se ragazzino eri un figlio di bagassa e se adulto eri un cornuto, se ti offendevi e manifestavi la tua superiorità per vendicarti e fargli più male, allora scattava il biasimo sociale, eri fuori dalla recita di strada dove la regola è che devi fare anche l’oppresso, non soltanto l’oppressore. Diventavi un coglione, in sostanza, il riccastro che se non lo fanno vincere si riprende il pallone perché il pallone è suo.
Era l’educazione che ci dava il nostro ambiente, mettevamo con naturalezza in gabbia i nostri istinti peggiori. Un po’ come a scuola, dove, se ci sospendevano per qualche goliardata, a casa si incazzavano ma poi tutto finiva lì. Ma se veniva fuori che avevi davvero offeso la dignità di qualcuno, che fosse professore, bidello o compagno di scuola, allora succedeva un pandemonio e tu capivi che dovevi reprimere certe bestie che nell’incerta età dell’adolescenza ogni tanto facevano capolino.
Ecco perché penso che questa faccenda atroce di Manduria difficilmente potrà essere risolta con la pur doverosa punizione dei colpevoli diretti. In posti come quello il vero problema è che si è rotto un equilibrio, un complesso sistema di leggi e di comportamenti alla base della convivenza è andato a carte quarantotto.Forse, parlando in generale, è anche la conseguenza di una narrazione che per avere il tuo consenso ti illude che l’ignoranza è un valore positivo, ti suggerisce che è meglio se tieni un’arma in casa perché non si sa mai, ti convince che gli stupratori non sono il frutto di ambienti e culture di merda, ma soggetti ai quali bisogna semplicemente tagliare le palle perché non lo facciano più. Forse la prossima idea nuova e originale, mai udita prima, sarà quella di tagliare le mani ai ladri e la testa agli assassini. E i social si riempiranno di evviva, mentre “quelli un po’ strani” saranno perseguitati dai nostri ragazzi annoiati.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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