“Figliolo, andiamo a farci una passeggiata in campagna, magari una corsetta? È una bella giornata, che dici?” “No papà”, risponde mio figlio senza staccare gli occhi dal dispositivo elettronico, “non ne ho voglia”.
Ricordo che a 14 anni, alla sua età, già da alcuni anni correvo nelle polverose strade di campagna del paese, in mezzo alla cacche delle pecore, con una di quelle società sportive un po’ improvvisate ma piene di passione. “Immoi deppeis curri a bellu a bellu, scetti a sa torrara forzai meda”. Ci spiegava il nostro allenatore, piuttosto empirico. All’epoca una torma di giovinastri levati dalla strada calcava quelle strade sterrate, che le piste di atletica non esistevano. Oggi le piste di atletica esistono, ma sono quasi sempre vuote. A furia di correre in quelle strade polverose, diventai una giovane promessa del mezzofondo. Mi ritrovai nel gruppo allenato dal Prof. Degortes, una sorta di guru dell’atletica italiana, insieme a gran parte dei maggiori campioni dell’epoca del sud Sardegna. Da poco ho avuto una discussione con un altro dei nostri blogger, lo sportivissimo Tore Dessena, sull’importanza di un mezzo di allenamento ormai in declino, il cosiddetto “fondo lungo”, o “lungo lento”. Un allenamento che consiste nel fare molti chilometri a passo lento e che, per questo, finisce per “ingrippare” un po’ il motore dell’atleta, diciamo così, per usare un termine comprensibile. Ma all’epoca in cui correvo io, e in particolare in quel periodo d’oro del mezzofondo sardo, a cavallo degli anni ’90, il fondo lento e il fondo lungo erano tanto impegnativi quanto divertenti, e c’era poco da ingripparsi. Ricordo che la domenica mattina, durante il periodo invernale, il Prof. Degortes ci radunava in un percorso campestre e ondulato a Poggio dei Pini. Era un raduno generale che comprendeva tra gli altri alcuni dei migliori atleti dell’epoca, che ancora oggi, a distanza di anni, sono in cima alle graduatorie regionali all-time in diverse distanze. Ci programmava il fondo su un circuito da ripetere più volte, per un totale di circa 18 chilometri, se non ricordo male. L’allenamento prevedeva una prima parte come riscaldamento, dove si scherzava, si rideva, e si chiacchierava. Poi, dopo qualche chilometro, l’andatura incominciava a crescere. Ricordo che Piero Ligas, l’atleta più anziano e carismatico del gruppo, aveva la caratteristica, piuttosto rara, di aumentare l’andatura anche chiacchierando. Sicché finiva che, andando a velocità di fondo medio, superati i 10 chilometri, restava solo lui a parlare, e tutti gli altri zitti. Il “Prof” di solito ci dava facoltà di “far girare le gambe”. In gergo significava una seconda parte in progressione. Lo scopo era di stimolare dei substrati energetici difficili da intaccare con altri mezzi di allenamento. L’andatura iniziava ad aumentare, e nelle salite c’erano quelli più adatti per muscolatura, Renzo Madeddu, o (l’allora) giovane Cabboi, che iniziavano a scoppiettare. Ma le ostilità, di solito, le apriva Paolo Lisci, esperto maratoneta, già primatista sardo della specialità. Tra il serio e il faceto lanciava la volata a 5 chilometri dalla fine dell’allenamento, per tirare il collo a tutti. E già si andava a 3’20” a chilometro, e anche meno. Quando l’andatura era bella sostenuta, di solito ci pensava Franco Deriu, talentuoso atleta, forse il più completo del gruppo, a movimentare la corsa. Franco aveva la caratteristica di saper cambiare velocità anche alle alte andature, ragione per cui sovente si divertiva a incurvare le spalle e partire di colpo. Se poi al gruppo si erano uniti gli atleti sulcitani come Gianfranco Secci o Gianluigi Curreli, allora c’era da divertirsi proprio. I pochi superstiti arrivavano all’ultimo chilometro che già si andava a 3′ a chilometro. A quel punto Giorgio Pisano iniziava il suo forcing. Giorgio, quando correva, sembrava che passeggiasse, anche alle alte andature. Dal fisico filiforme, correva come una ballerina, composto, quasi in punta di piedi. Mentre io, che pesavo 15 chili in più di lui, arrancavo soffrendo le pene dell’inferno, lui pareva non fare sforzo alcuno. Così i più resistenti cercavano di staccare i più veloci nel finale, come lo scaltro Giuseppe Lai, o chi scrive, che nei test di velocità risultava il più veloce. Ma il problema era arrivarci in volata con quei campioni. Verso le sette di sera, d’inverno, a Cagliari, ci si radunava al Campo Coni. A volte ci si riuniva con un altro gruppo di mezzofondisti proveniente dal campo del Cus Cagliari. Si correva nelle vie cittadine a manetta, come matti. Insomma, si faticava, si faticava tanto. Si mangiava la polvere, si sudava, ma ci si divertiva. Altri tempi, probabilmente. Non c’erano gli smartphone.
“Figliolo, dai, andiamo a farci una bella passeggiata in montagna, che è una bella giornata.” “No papà, sono stanco. Sono tornato a piedi dalla scuola.” “Ah ecco, giusto. Va bene figlio mio, riposati pure.”
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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