E’ un po’ difficile fare intendere fuori dall’hinterland sassarese e fuori da alcune generazioni che razza di ferita sia la distruzione del Lido Iride di Platamona. Io, guardando le macerie, ho provato la rabbia di chi assiste a uno scempio che sino a pochi anni fa poteva essere evitato e ho pensato a un’inserzione nella quale mi ero imbattuto intorno al 2010 in un sito: “Siete di Senigallia? Abitate lì vicino? Avete sempre sognato di sposarvi sulla celebre rotonda che ha fatto sognare tanti innamorati? La famosissima struttura che ha ispirato la canzone di Fred Buongusto sarà aperta per i matrimoni civili compatibilmente con gli altri eventi che vi si svolgono…”. E avevo appreso che la Rotonda era diventata una ricca fonte di reddito. Nonostante una stoccata di prezzo, le prenotazioni per i fine settimana disponibili si erano esaurite poco dopo la pubblicazione dell’annuncio su emittenti e giornali locali. Io lo lessi sul sito del proprietario. Cioè il Comune di Senigallia, custode delle mura e dei guadagni scaturiti dalla riapertura di quello stabilimento sulla costa adriatica. Già, perché questa storia dei matrimoni era soltanto l’aspetto più folcloristico dell’affare. In realtà c’erano anche le serate dancing, le esposizioni, le rappresentazioni teatrali, i convegni, un mucchio di concerti, eventi gastronomici, sfilate di moda. E pensate che la Rotonda sul mare di Fred valesse molto più del lido Iride di Platamona? Era più anziana di una quindicina di anni e se ne conoscono i progettisti. Ma alla fine la dignità architettonica delle due strutture si equivaleva. In quanto al valore storico – cioè il radicamento nella cultura della popolazione del luogo –, forse l’Iride era superiore. La vera differenza riguarda probabilmente le classi politiche e imprenditoriali delle due località. A Senigallia nessuno si sognò di gridare “buttiamola giù” quando, negli anni Ottanta, i cambiamenti di gusto dei turisti e l’avanzare delle discoteche decretò la fine degli anni d’oro della “villeggiatura” e delle serate con Buongusto, Gino Paoli, Mal o Franco Califano. La Rotonda rimase lì, rispettata come bene della memoria di tutti e occhieggiata come potenziale affare. Sino a quando, nel 2006, venne riaperta con una due giorni di festeggiamenti rimasta nella storia di quelle coste e dopo un restauro finanziato con cinque milioni di euro dal Comune, dalla Regione Marche e dalla Ue. Un progetto (“basato su un fedele ripristino” come si legge nella relazione) che attribuiva alla struttura la funzione di bene pubblico “accessibile liberamente come luogo di incontro” e insieme quella di promozione turistica del territorio. E, va da sé, sede richiestissima dai privati: organizzatori di eventi che convogliarono quattrini subito utilizzati per la gestione stessa della Rotonda, sapientemente promossa a ruolo di monumento vivo e attivo. La storia dell’Iride è diversa. Venne chiuso negli anni Ottanta, come la Rotonda di Senigallia e per gli stessi motivi. Ma se erano globali i mutamenti di gusto nel campo del turismo e dell’intrattenimento, non lo erano evidentemente gli atteggiamenti nei confronti dei beni storici. Si cominciò quasi subito a chiedere l’abbattimento del “rudere”, definito tale quando ancora sarebbe bastata una mano di vernice. Alla fine a proteggerlo restò soltanto la soprintendenza, protagonista diversi anni fa di una improvvisa marcia indietro. L’ente di controllo e tutela negli ultimi anni aveva più volte ventilato l’opportunità di vincolare la struttura di Platamona, legando quindi qualsiasi intervento a un ripristino delle condizioni originarie dello stabilimento inaugurato negli anni Cinquanta. Qualche anno prima aveva fatto sapere al Comune di Sorso, nel cui territorio ricadeva l’Iride, che ogni ipotesi di demolizione doveva essere preceduta da una verifica sull’interesse storico e culturale, da richiedere al ministero da parte degli enti interessati: cioè il demanio e lo stesso Comune. C’è da dire che in tutti quegli anni in cui la soprintendenza era stata genericamente accusata di “bloccare tutto”, nessuno si era mosso per chiedere questa verifica. E a “bloccare” non era quindi l’ufficio di via Monte Grappa ma la legge dello Stato secondo cui un edificio demaniale che abbia più di cinquant’anni di vita deve essere sottoposto a verifica prima di qualsiasi intervento. Nessuno chiese quindi che con un accertamento di confermasse o si rimuovesse il vincolo, ma nonostante questo continuò una sorta di strisciante campagna contro la soprintendenza che, stando alle lamentele, per chissà quali ubbie burocratiche si sarebbe a lungo opposta al risanamento del litorale e alla rimozione di quel “rudere” (nel frattempo stava davvero diventando tale). In effetti negli uffici della soprintendenza circolava la convinzione che l’Iride fosse un edificio da salvare per motivi storici e culturali e che sul piano tecnico fosse possibile un ripristino pressoché totale. Convinzioni manifestate nel corso di incontri, durante gli anni, con esponenti delle diverse amministrazioni che si erano succedute al Comune di Sorso e alla Regione. Alla fine l’equivoco si sbloccò quando il demanio commissionò alla facoltà di Architettura dell’università di Sassari una relazione sulla base della quale chiedere al ministero la verifica di interesse. Il soprintendente aveva letto il documento dei docenti, che parlava di un evidente valore culturale e affermava che il ripristino era possibile. Da quanto si sa, non aveva manifestato alcun disaccordo. Ma poi c’era stato il cambio di rotta: nessun interesse storico e culturale. Di certo la tutela paesaggistica, quella con cui la stessa soprintendenza diceva che l’Iride poteva essere salvato, era un’illusione. Soltanto un vincolo di carattere storico-architettonico avrebbe infatti legato qualsiasi progettista a un ripristino o a una ricostruzione basati sull’esistente e sul progetto originario. Un vincolo paesaggistico è molto più generico: si può infatti inventare un manufatto diverso dal lido ma compatibile con il paesaggio. Ancora oggi mi stupisco di certe differenze di vedute della soprintendenza. A esempio il vincolo mantenuto a Sassari sul Turritania di piazza Sant’Antonio: è vero che il vecchio albergo è una quinta che copre le brutture di quella periferia ferroviaria, così come è vero che fino a ora non sono state presentate valide alternative in caso di demolizione; ma, alla fine, in termini assoluti il valore storico e architettonico del Turritania è senza dubbio più discutibile di quello del Lido Iride. E comunque, a parte ogni decisione della soprintendenza, le volumetrie dell’iride erano preziose in tempi di discipline urbanistiche in cui il cemento vicino al mare è un affare sempre più difficile. Quella di Sorso è poi un’amministrazione alle prese con l’eterno problema di una sproporzione tra il numero dei cittadini e quello dei fruitori del territorio comunale. Al momento 13mila abitanti su 200mila utilizzatori a vario titolo. L’unico modo di controllare il territorio costiero è quindi quello di un sistema di stabilimenti balneari. Come intuirono molto bene negli anni Cinquanta i sindaci di Sassari e Sorso Oreste Pieroni e Salvatore Cottoni. Il primo creò Platamona, l’altro accettò un fortissimo insediamento sassarese sul territorio del suo comune, pilotando la trasformazione e creando un ingegnoso sistema di infrastrutture. Il Lido Iride fu ideato in questo contesto: costruito nel territorio di Sorso dal sassarese Sebastiano Pani e utilizzato, dalla nascita alla morte, quasi esclusivamente da sassaresi. Si pensi che il permesso di edificare non venne dato dal Comune di Sorso, ma fu una generica “concessione” del Consorzio di Platamona (Sassari-Sorso-Porto Torres) presieduto dal sindaco di Sassari Pieroni. Il progettista che firmò l’opera era il geometra Giuseppe Melis, ma c’è il sospetto che il disegno – sintesi tra l’eleganza di linee degli anni Quaranta e alcune coraggiose soluzioni in voga nel decennio successivo – fosse stato in qualche modo ripreso da opere già esistenti sulle coste del Mediterraneo e da riviste specialistiche. C’è chi sostiene che il vero autore potrebbe essere stato l’architetto Vico Mossa. Ma è poco probabile: sembra infatti che tra lui e l’imprenditore Pani in quegli anni non ci fossero rapporti troppo stretti. Resta il fatto che si trattava dell’unico manufatto di valore realizzato in quella zona. Un esempio prezioso dell’architettura di un periodo che valeva tanto oro quanto pesava. Provate soltanto a cercare su eBay un giocattolino di celluloide, un cartone pubblicitario, un ventilatore, una radio o un qualsiasi altro oggetto “originale anni Cinquanta”. E guardate quanto costa e quanto poco dura in asta. Capirete anche da questo perché quando la prima picconata è caduta sull’Iride è stato un colpo al portafoglio, oltre che al cuore di un mucchio di gente.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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