A me il terrorismo fa paura come a qualunque altro essere umano dotato di un minimo di ragionevolezza. Voglio che tra qualche anno, quando mio figlio andrà all’estero per studiare, possa farlo senza l’incubo di saltare in aria, ogni volta che entra al bar o in un cinema. A me interessa che questi fanatici siano neutralizzati, poche storie. Con i pochi elementi di conoscenza a mia disposizione, cerco di valutare razionalmente le diverse opzioni suggerite da chi auspica un intervento immediato dell’Occidente.
Uno dei capisaldi di questo schieramento interventista è il rifiuto di distinguere tra Islam moderato ed estremista. Per costoro, l’Islam è violento di per sé e la guerra sarebbe un elemento costitutivo di questa religione, che avrebbe nell’annientamento dell’avversario la sua mission. Lo sostenne, quindici anni fa, Oriana Fallaci, riferimento culturale di questo movimento, lo ha ribadito l’editorialista Piero Ostellino dopo i fatti di Charlie Hebdo, lo hanno sempre detto i politici delle varie destra italiane. Uno dei quali, ieri, ha annunciato di voler “prendere a calci in culo chi mi parla di Islam moderato”. Quest’area propone di fare la guerra a tutto l’Islam per rimuovere alla radice il fanatismo, non limitando l’azione a misure di difesa passiva ma attaccando il nemico a casa propria. Fare la guerra a tutto l’Islam significa dichiararla ad un miliardo e seicento milioni di persone nel mondo. Ne siamo consapevoli? Vogliamo delimitare questa guerra ai soli ambiti caldi del Medio Oriente e dell’Africa, quelli dove si suppone il terrorismo musulmano attecchisca di più? Bene, dovremmo fare la guerra a circa seicento milioni di persone. Quasi la popolazione dell’intera Europa, che ne conta 743 milioni.
Siamo sicuri che estendendo il conflitto a tutte quelle aree dove l’Islam è presente, senza distinzioni, si sopprima il terrorismo e si cancelli ogni rischio? O sarà forse vero il contrario, cioè che abolire le distinzioni metterà molta più gente contro di noi e i rischi aumenteranno in misura incalcolabile?
Siamo convinti che il nemico sia l’Islam, senza distinzioni? Se ne siamo sicuri, smettiamo di fare affari con chiunque sia musulmano e rispediamolo a casa sua. A cominciare sull’emiro del Qatar, sovrano di una monarchia amministrata sulla base della legge islamica e padrone della Costa Smeralda, sulle cui relazioni con certo fondamentalismo molti nutrono dei sospetti. All’emiro, però, nessuno si sognerebbe di chiudere le frontiere, men che meno le destre che pochi mesi fa proposero di affondare i barconi in viaggio per l’Europa. Evidentemente non è un problema di religione, ma di potere economico: quello c’ha i soldi e li sta spendendo in tutta Europa, comprando interi quartieri delle capitali.
La soluzione è nella chiusura delle frontiere? Bene, chiudiamole. Però questo non sarebbe valso a scongiurare i morti di Charlie Hebdo, dal momento che quei terroristi erano nati in Francia. E neppure a disarmare la mano del boia dell’Isis, nato in Inghilterra.
Ci sono poi quelli che vogliono bombardare qualunque forma di vita da Lampedusa n giù. Bene, se mi garantite che questo risolverà il problema, io sarò ben felice di sostenere questa strategia. Però, anche in tempo di memorie corte, va ricordato che questa non è mica una novità. Gli Stati Uniti hanno iniziato l’invasione del Medio Oriente nel 1990, con la prima Guerra del Golfo e l’operazione Desert storm, proseguendo poi l’opera dopo gli attacchi dell’11 settembre. Tonnellate e tonnellate di bombe rovesciate su Iraq e Afghanistan alla ricerca di una “smoking gun” che, ammise poi Bush junior, non era mai esistita. Abbiamo risolto il problema, con quegli anni di esportazione di democrazia?
Se oggi contiamo i morti di Parigi, direi proprio di no. Il terrorismo, dopo quelle operazioni militari, è cresciuto a dismisura, alimentato dal desiderio di vendetta. Se vi piace tanto fare la guerra fatela, ma non dite che serve a risolvere i conflitti. No, serve a crearne altri.
Bisogna quindi starsene con le mani in mano e sperare che non accada più, ben sapendo che accadrà ancora? Niente affatto. Bisogna rispondere con la massima durezza possibile, ma colpendo unicamente i responsabili. Tutti quelli che dovessero morire da innocenti, nella lotta contro il terrorismo, sarebbero comunque vittime del terrorismo. Li avremmo sulla coscienza e, prima o poi, qualcuno di questi kamikaze con i giubbotti imbottiti di esplosivo verrà a presentarci il conto.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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