“Io non ho mai sentito il bisogno di pregare, nemmeno durante la prigionia. Spesso anche i non credenti, in momenti drammatici della vita, cercano un dio a cui rivolgersi. Io no. Non ho mai pensato di tornare sui miei passi”.
Sono alcune delle parole con cui la giornalista Giuliana Sgrena chiude il suo ultimo libro, Dio odia le donne, appena edito da Il Saggiatore.
La superfluità della fede religiosa nella propria esperienza di vita e, soprattutto, gli aspetti controversi dei culti sulla vita delle donne sono affrontati con estrema chiarezza fin dalle prime righe scritte dalla giornalista de Il Manifesto. Il suo, scrive l’autrice, è un percorso all’inverso; non un cammino verso la religione (evento abbastanza comune) quanto, piuttosto, un allontanamento: “atea lo sono diventata”. Un percorso che ci viene raccontato anche richiamando i momenti del suo rapimento in Iraq nel 2005 che si concluse con la sua liberazione ma con la morte dell’agente Nicola Calipari. Questa assenza della religione trova prevalentemente una spiegazione nella modalità con la quale tutti i culti monoteisti si relazionano alla donna, raccogliendo l’eredità di un’altrettanto antica cultura patriarcale e maschilista. L’obiettiva analisi si muove con il richiamo ai testi sacri, nei passaggi che più sono utili alla dimostrazione della tesi: cristianesimo, ebraismo e islam hanno le donne come vittime principali, e quindi i loro corpi, le loro vite e menti. Tuttavia il testo non si presenta né vuole essere un’esegesi semplificata della Bibbia o del Corano: i passi della prima o le sure del secondo sono utilizzati per descrivere lo spazio (poco) che alla donna viene riservato nella religione nei giorni nostri; dall’arretratezza dell’Italia in materia di educazione sessuale a causa dell’influenza e delle ingerenze della Chiesa, agli esempi di “delitto d’onore” dell’Afghanistan, altro paese conosciuto dalla giornalista in prima persona; fino ad arrivare al ritorno dell’infibulazione in alcuni paesi arabo-musulmani ma anche in Europa per effetto delle migrazioni. Pratica che cerca di affermarsi in veste legalizzata tramite l’infibulazione medica. Altre conseguenze delle migrazioni e della modernità, come i matrimoni misti, riportano l’autrice ad affrontare l’odierna situazione dell’Iraq. Nell’Iraq dell’Isis il matrimonio tra un musulmano e un altro credente è diventato un divieto. Aggiungiamo a questo il cosiddetto “matrimonio jihadista”, unente uomini e donne arruolati per la causa dello stato islamico. Matrimoni misti che risultano indigesti anche all’ebraismo, nel quale aderenza al culto e appartenenza etnica coincidono. Se quindi la ritrosia verso queste unioni è una caratteristica presente in tutte le tre grandi religioni, l’oscurantismo cattolico è additato come il più percepibile in una delle questioni che più mobilitano e coinvolgono le donne: l’aborto. Su tematiche inerenti alle donna e alla famiglia, l’ultimo sinodo di Papa Francesco non rappresenta, scrive la Sgrena, un passo in avanti significativo. E la recente dichiarazione del capo della Chiesa cattolica sull’avvio di uno studio sul diaconato femminile sono per l’autrice un’apertura tutta da verificare.
Ho posto a Giuliana Sgrena alcune domande specifiche sul libro.
Nel suo testo lei fa spesso riferimento alla Tunisia, esempio parzialmente positivo in tema di libertà e diritti. Ad essere citati sono anche la Turchia e l’Iran dei Pahlavi. Lei come giudica i casi di laicizzazione forzata che si sono avuti in passato in questi due paesi?
R. Naturalmente le forzature sono sempre negative quando impongono un cambiamento drastico e radicale delle tradizioni e spesso producono l’effetto contrario a quello sperato. A volte alimentano le forze reazionarie che fanno leva su queste forzature per imporne altre ancor più negative. È quello che è avvenuto nell’Iran dello scià e in modi meno drastici in Turchia mentre la Tunisia, forse per la sua vicinanza con l’Europa, ha fatto della modernità della società un proprio vanto. La reislamizzazione imposta in Iran e in Turchia fa rimpiangere la libertà del passato. Quello che era contestato allo scia era soprattutto il regime dittatoriale e la repressione brutale di tutti gli oppositori, ma la situazione che si è creata con Khomeini al potere in Iran e l’involuzione del regime di Erdogan in Turchia non hanno nulla da invidiare al passato.
I paesi citati sopra,l’Iran in particolare, compaiono nel suo testo anche a proposito della questione del velo. Lei su questo tema è molto netta, affermando come questo indumento sia simbolo di sottomissione. Cosa pensa del business che nel mondo islamico si sta creando attorno al velo come oggetto di moda da esibire con ancora più orgoglio e vanità?
R. A preoccuparmi più del business sul velo in Oriente è il business sulla moda islamica che si fa in Occidente, a partire da Dolce e Gabbana per arrivare a H&M passando per Mark & Spencer a Londra. La moda islamica è diventata una fonte di guadagno, poco importa se va contro le lotte delle donne che cercano di liberarsi da questo simbolo della loro oppressione. Bene ha fatto la premio Nobel iraniana Shrin Ebadi a invitare le diplomatiche che si recano in Iran a non mettere il velo.
In alcuni passi, (come ad esempio a pagina 130, dove afferma come alcune pratiche come il “matrimonio jihadista” screditino l’islam) suggerisce come la religione divenga talvolta uno strumento che l’uomo piega per legittimare alcune sue volontà. Possiamo quindi dire che in alcuni casi l’uomo, inteso anche come maschio, odi le donne anche a prescindere dall’influsso della religione?
R. Io sono atea, come racconto nel libro lo sono diventata. In quanto atea non credo in Dio, quindi penso che a odiare le donne non sia Dio ma gli uomini che dicono di parlare in nome di Dio. Ad opprimere le donne è il patriarcato, ma le religioni forniscono un forte alibi al sistema patriarcale. E di fronte a fenomeni raccapriccianti come quelli deljihadismo dell’Isis non si può dire che la religione non c’entra, purtroppo c’entra perché loro fanno riferimento a categorie dell’islam, anche se le stravolgono e strumentalizzano.
Tra le personalità da lei citate c’è la sociologa marocchina Fatima Mernissi, scomparsa nel novembre del 2015. Ma solo pochi addetti ai lavori l’hanno ricordata. Perché secondo lei i media ignorano queste voci femminili libere che provengono dal mondo arabo musulmano?
R. Sono molte le donne che come Fatima Mernissi si sono battute e si battono per i diritti delle donne nei paesi musulmani, noi le ignoriamo per provincialismo, per una sorta di relativismo culturale in base al quale quelle popolazioni sono fatte così, le loro tradizioni non si possono cambiare e condanniamo quelle donne all’isolamento. Senza contare che la storia la raccontano quasi sempre i maschi e le donne sono sempre escluse, non esistono.
Uno dei passi più incisivi del libro è quello che riguarda la poligamia. Lei scrive: “Per una donna sterile in un paese musulmano non c’è futuro”. Anche in Italia una donna che decide di non avere figli è guardata con sospetto, spesso dalle stesse donne, talvolta. Che ne pensa?
R. Nella mia generazione molte donne non hanno fatto figli per scelta, così come la riduzione delle gravidanze nei decenni passati è stato frutto dell’emancipazione delle donne e dell’affermazione dell’autodeterminazione. Ora le donne, ma anche i maschi, spesso non si possono permettere di fare figli viste le condizioni di povertà, mancanza di servizi sociali in cui viviamo. I bonus bebé con i quali il governo cerca di aumentare il tasso di natalità non servono a nulla, sono briciole rispetto alle esigenze. La popolazione sta crescendo solo grazie alla presenza di migranti, ma questo fa paura e allora si lancia l’allarme, ma senza le condizioni necessarie non si possono fare figli, sarebbe una mancanza di responsabilità.
Altro argomento forte: la pratica dell’infibulazione chiama in causa anche l’immigrazione e lei ha riportato l’esempio del tentativo di introdurre in Italia l’infibulazione medicalizzata, nel 2004. Questo può considerarsi un emblema dell’impreparazione dell’Italia dinanzi al tema dell’integrazione e dell’accoglienza?
R: Sicuramente l’Italia è impreparata, non ha mai avuto una politica sulla migrazione che prevedesse l’accoglienza e anche l’integrazione basata sul multiculturalismo. Questo non vuol dire però tollerare la violenza contro le donne e finanche la mutilazione del loro corpo, condannata dalla Conferenza delle donne di Pechino e dalla Conferenza del Cairo. Una vera integrazione si può fare solo sulla base del rispetto delle leggi dello stato che deve garantire a tutti i cittadini condizioni di vita dignitose. Non si può fare appello alla tolleranza perché questo vorrebbe dire che dobbiamo tollerare chi consideriamo diverso, inferiore a noi. Se torniamo alla religione solo uno stato veramente laico piò garantire la convivenza di diverse religioni, ma la religione deve essere separata dalla politica e dallo stato, deve essere una scelta individuale.
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