È una mattina di inizio dicembre del 1994. In un corridoio di Florina, tra le montagne nel nord della Grecia, la cameriera di un piccolo albergo sta per entrare dentro una delle stanze, la 206, per riordinarla. Fa freddo, e la porta sembra avere qualche problema. Con un po’ di fatica la donna riesce ad aprirla e, sulla soglia del piccolo bagno, scopre il corpo senza vita di uno degli ospiti dell’albergo. Un uomo con i capelli bianchi, un bell’uomo, con un viso che sembra consumato dalle tempeste. Moriva così, 22 anni fa, Gian Maria Volontè. Nato nel 1933, a Milano, nel mezzo del Ventennio fascista, l’attore più a sinistra che il Cinema italiano abbia mai avuto, il Ventennio se lo era ritrovato anche a casa, sotto forma di padre, membro delle milizie e comandante di una brigata nera. Attore di irripetibile bravura, non aveva avuto un’infanzia facile, e a leggere la sua biografia si ha l’impressione che le cose facili in fondo non gli piacessero granché.
È vissuto al mare, oltre che nel Cinema. È vissuto nelle storie che ha messo in piedi con alcuni dei più grandi registi (Rosi, Petri, Leone, Anghelopulos).
Ed è morto in montagna, in Grecia, mentre lavorava a un altro film. Si dice sempre, parlando dell’opera più recente di un attore o di un regista: “l’ultimo film di…”. E sembra strano usare poi le stesse parole per indicare proprio il film finale, quello dopo il quale non ne verranno più. Lui addirittura, quel film di Anghelopulos lo stava recitando mentre moriva, che non è la stessa cosa di morire mentre si recita; dico così perché so che recitava anche a macchine spente, recitava fino a che non era certo che le riprese erano terminate e che iniziava la fase di montaggio. Allora usciva dai costumi dei suoi personaggi e rientrava nel mondo popolato dagli spettatori. Si, lui non è morto mentre recitava. Lui ha recitato mentre moriva. Quel “mentre” indica che una cosa arriva a interromperne un’altra che sta già accadendo. Il telefono squilla mentre guidi. Il tuono scoppia mentre dormi. Volontè recita mentre la morte arriva per portarselo via. Quindi è lui che ha alterato il corso delle cose, compreso il momento finale, regalando alla sua morte la sua ultima magistrale interpretazione.
L’ultimo film si chiamava “Lo sguardo di Ulisse”. Non l’ho mai visto per intero. Vabè, c’è tempo. È una storia sul cinema dei primi tempi, girata tra gli echi della guerra che infiammava i Balcani proprio nei giorni delle riprese. Florina è a cavallo tra Atene e Sarajevo, tra Ulisse e la guerra. Il film racconta una storia sulla bellezza che salva, in cui Volontè è il custode che protegge la bellezza da quello che può pioverle addosso. Harvey Keitel, altro gigante, interpreta Ulisse che vaga alla ricerca di questa bellezza, incarnata in tre vecchie pellicole girate tra i villaggi dei Balcani nei primi anni del Novecento.
È vissuto anche al mare, dicevamo, e quando navigava tra Caprera e Budelli, Volontè guardava il mare con lo sguardo di Ulisse. Lo so perché quello sguardo siamo in grado di immaginarlo tutti, e lo so perché ho visto delle foto, e ho fatto il confronto tra gli occhi di Volontè e quelli di Ulisse, che immagino ogni volta che penso al Mediterraneo come a un testo sacro.
Ora Gian Maria Volontè riposa a La Maddalena, sotto un albero del Cimitero comunale, sotto una pietra a forma di vela.
Se lo andrete a trovare sarete accolti dalle parole di Paul Valery: “Si alza il vento, bisogna tentare di vivere”.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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