La nostra pedalata è finita. È durata quattro giorni e 230 chilometri. Siamo partiti in mercoledì dalla Costa Smeralda, siamo arrivati domenica all’Asinara, dopo aver varcato sulla motonave Alcor le due miglia marine tra Stintino e il porticciolo di Fornelli. Per quattro giorni non ho letto giornali, non ho seguito un notiziario, non ho saputo nulla degli annunci di Renzi, della finale di Coppa Italia ho visto solo pochi scampoli. Facile e qualunquista rimarcarlo, ma di questa routine non ho mai sentito la mancanza. Mi è mancato il non aver visto Aru conquistare la maglia rosa, ma sono sicuro che capiterà altre volte. Mentre trascinavo la bici sulla spiaggia di Vignola, sotto la torre antica, un amico mi ha chiamato per annunciarmi che le nostre strade si sarebbero divise. Ho chiuso la comunicazione mentre stavo per arrivare al guado: solitamente lo stagno invade la spiaggia nel suo ultimo tratto, allora tocca levarsi le scarpe e attraversare quel rigagnolo con la bici in spalla. Stavolta, invece, lo stagno era arretrato e abbiamo trovato un tratto di spiaggia asciutto, non c’era bisogno di bagnarsi. Invece io le scarpe me le sono levate lo stesso e sono affondato nell’acqua fino alle ginocchia: è stato il mio primo mezzo bagno di stagione, come sempre ho attribuito al gesto un simbolico potere di purificazione. Mi sentivo in pace.
Una escursione a tappe in bicicletta è una cosa che molti non capiscono: alcuni chiedono, incuriositi, altri ti ridono in faccia, ti sbeffeggiano come farebbero con lo scemo del villaggio. Prendere le ferie, perdere giornate di lavoro, prenotare e pagare biglietti della nave o dell’aereo per vacanze brevi e dove ogni giorno ci si ammazza di fatica, strappare libertà alle mogli, avere accanto il mare della Sardegna agognato per un intero anno e non potercisi tuffare per un bagno. O comprare la bicicletta la mattina stessa della partenza, come ha fatto Daniele, senza mai averci fatto un giro di pedale prima della partenza. Che senso ha? Che senso ha se non è una gara, se non si vince nulla, se non c’è da dimostrare nulla se non a sé stessi? Bisogna provare per capire. Bisogna salire sulla sella per capire quanto orgoglio e soddisfazione possano provare delle persone normali che, sommando la forza delle loro gambe e delle loro volontà, riescono a pedalare per sette ore al giorno, lasciandosi schiaffeggiare dal vento e infradiciare dalla pioggia. L’ho già scritto: guadagnarsi luoghi sconosciuti spingendo sui pedali è tutta un’altra cosa, quei luoghi non si dimenticano proprio perché sono il compenso della fatica. In auto non ci si può arrivare alla chiesa di San Silverio, sul mare di Aglientu, non si può percorrere il sentiero segnato sul fianco del promontorio tra Valledoria e Castelsardo e nemmeno inoltrarsi nel bosco sopra la chiesa di Balai lontano, a Porto Torres. Io non sapevo che gli asinelli albini dell’Isola carceraria corressero tanto. Di rientro da Cala d’Oliva, in un tratto pianeggiante in cui viaggiavo a quaranta all’ora, ho sentito alle mie spalle un tambureggiare di zoccoli, un cloppete cloppete furioso sulla strada in cemento. Due asinelli al galoppo mi hanno affiancato, l’uno mordicchiava il dorso dell’altra e le loro traiettorie si incrociavano: un corteggiamento a tutta velocità, in quest’Isola punteggiata dal rosso dell’euforbia ma dove tutto sembra immobile ed immutabile. La storia strappacuore dell’ossario dei soldati austro ungarici ce l’hanno raccontata due anziani svizzeri coi sandali ai piedi. Avevano tanta voglia di raccontarcela, di rendere onore a vite senza volto e private di una degna sepoltura.
Abbiamo visto tutto questo assieme a: Leonardo, avvocato civilista, di Roma; Angelique, imprenditrice francese; Nicola, meccanico, di Sant’Antonio di Gallura; Cesare, bancario, di Thiesi; Luca, giornalista, di Sassari; Eduardo, elettricista, di Sant’Antonio di Gallura; Daniele, albergatore, di Roma; Giuliano, giornalista, di Genova; Stefano, veterinario, di Sassari Renato, giornalista Rai, di Roma; Edoardo, architetto, di Roma. E poi c’erano il factotum Giuseppe Tali, l’architetto di Orosei Tore Dessena, il direttore postale Gigi Usai, il ristoratore Serafino Berlini e il sottoscritto. Resteremo amici, perché non si dimenticano quelli con cui si è condivisa un’impresa.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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