Camminare contando quasi i passi. Tra la casa e l’ufficio, tra il deserto e il mare. Che osserva muto, che mi accompagna senza spruzzi e senz’anima. Quel mare che mi porto dentro fin dalla nascita, che ha invaso la mia infanzia, colorato la mia adolescenza, evidenziato questo tempo maturo dove, oggi, siamo più soli. E non solo intimamente. I passi accompagnano i piccoli pensieri che da via Sonnino vagano per raggiungere il mare. Arrivare alla stazione dei treni e non trovare un bar aperto. Come se fosse Santo Stefano, come se fosse il riposo di una lunga festa. L’ufficio ha il colore della responsabilità, dell’organizzazione, della rassegnazione; il computer quasi un nemico che vomiterà, a breve, note e lettere, circolari da rispettare, verificare, centrifugare. La mano che muove il mouse è un po’ più lontana dallo schermo. Come se avesse paura di un contatto. Come se temesse un contagio. Tutto ci spaventa. Camminiamo per strada – siamo pochissimi – ci osserviamo guardinghi e lontani. Neppure l’accenno di uno sguardo. Anime in ritardo con la voglia di vivere. Mi viene in mente la poesia di Ungaretti, quella dei soldati che si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Ed è subito sera, aggiungerebbe Quasimodo. Cose così, dove il cuore della terra e il raggio di sole si miscelano dentro una nebbia fitta che non restituisce abbracci. Molti colleghi sono a casa, lavorano anch’essi tra il computer e qualche goccia d’angoscia. Il lavoro diventa quasi una necessità, restituisce realtà a questa storia che nessuno poteva narrare con queste sottolineature, con questi scenari. La mattina mi alzo molto presto e la dedico alla lettura dei due quotidiani ai quali sono abbonato. Li scarico sul mio ipad e comincio ad osservare la gravità delle parole, la solennità degli editoriali, la poca voglia di leggere altro. Non riesco più ad arrivare alle pagine degli spettacoli e dello sport. Tutto ruota intorno a poche parole, a comprendere, interpretare. Tutto è così infuso di spirito di sopravvivenza. Quel voler restare da queste parti ad ogni costo. Perché ci piace il mare e il vento e la voglia di sorridere. Quasi a voler dire all’universo mondo che questo mondo virtuale, questa città virtuale, questo lavoro virtuale ci distrugge, ci rimpicciolisce, ci costringe a stare con noi stessi senza la possibilità di trovare un interlocutore. Anche la politica restituisce silenzio e poche rappresaglie. Tutto è sospeso: il campionato di calcio, il bar, il ristorante, i compleanni. Ho pensato in questi giorni a quanto fossimo inconsapevoli di tutto questo solo qualche settimana prima. Stravaccati sul divano a guardare Sanremo, impegnati a polemizzare su piccole cose. Ci ho quasi sorriso: eravamo sulla pista da ballo del Titanic e non lo sapevamo. Non lo avevamo capito. Perché ci sentivamo forti ed invincibili. Vivevamo in un mondo pieno di persone anche se, in realtà, ci parlavamo attraverso una chat e ci mandavamo i cuoricini solo via WhatsApp. Poi, quando il Titanic ha colpito l’iceberg ci siamo resi conto che avevamo necessità di abbracci: quelli veri. Siamo fatti così e forse lo siamo sempre stati, accovacciati nel nostro egoismo, nel nostro voler essere attori protagonisti quando, in realtà, non sapevamo neppure fare le comparse. Ci siamo buttati nel virtuale: leggeremo, ascolteremo musica, vedremo tutte le serie di Netflix e pazienza per quei baci non dati. Ce li restituiremo più belli e più grandi. Abbiamo bisogno di tutto questo. Lo penso mentre mi avvicino al molo dove, lontano, è attraccata la Tirrenia. Abbiamo bisogno di avere la certezza di partire e la speranza di ritornare. Tutto questo ci servirà quando riavvolgeremo il nastro. Sono passato, come tutti i giorni davanti a Piazza Gramsci, in via Sonnino. Sulla pietra del giardino completamente ricostruito c’è scritto: “Istruitevi. Avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza.” Ma ci agitiamo dentro un acquario e abbiamo perso l’entusiasmo. Potevamo organizzarci meglio: c’era bisogno di tutta la nostra forza. Forse lo abbiamo fatto. Per dare ragione a Gramsci. Forse. Il telefono squilla e tutto, di colpo, si colora. Dall’altra parte un collega di Torino che mi racconta di un detenuto minore che ha problemi con i genitori, non vuole ritornare a casa, una volta terminata la pena. Quasi sorrido alla notizia. E’ normale. Fuori corona virus, fuori dal circo in cui siamo finiti quasi inconsapevolmente. Forse. Quando chiudo la telefonata mi rendo conto che mi manca l’oggi, il sapore della normalità, la felpa di Salvini, l’occhio attento di Toninelli, il PD che si scompone. Poi, tra le notizie che fluiscono sempre identiche, sempre terribile, scovo la più bella: Berlusconi parte per Nizza con la nuova fidanzata. Mi emoziono quasi a pensare a quelle giornate, a Santoro, a Repubblica con quegli attacchi quotidiani. Sorrido mentre osservo il mare che mi accompagna verso casa. Berlusconi, quello che amava questo paese, quello che aveva creato Milano 2, quello che. Proprio lui: finito come uno Schettino qualsiasi. L’opera, bellissima, di Sciola, in piazza Gramsci mi osserva. Di cosa avevamo bisogno? Probabilmente solo di un po’ di tranquillità. Scivola sulle cuffiette del mio iphone: “Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore” e anche per oggi è andata. Si ritorna a casa. Per rimanerci. Buona serata abbracciatori.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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