Stamattina ho visto una caricatura in cui Luigi Di Maio appare con profilo curvo, appesantito da una vistosa gobba.
Insomma, Di Maio si sarebbe trasformato in Giulio Andreotti, ormai ostaggio del potere che la sorte gli ha inaspettatamente concesso e a sua volta disposto ad ogni trasformismo pur di tenersi stretto quel potere.
Di Maio, classe 1986, appartiene alla stessa generazione dei reality show televisivi.
Non può essere un caso.
Io credo che noi, popolo, con la parabola di Di Maio siamo stati testimoni di un vero reality show. Abbiamo visto un giovanissimo uomo entrare nella casa della politica con una smodata ambizione e la presunzione tipica di quei giovani convinti di poter cambiare il mondo. Poi, anno dopo anno, darwinianamente lo abbiamo visto adattarsi alle regole di un sistema più grande di lui, accettando ogni compromesso, sviluppando in sé la Ragion di Stato, acquisendo i rudimenti della diplomazia, passando da un giorno all’altro dall’alleanza con la Lega a quella col Piddì. Il tutto scandito da dichiarazioni sempre più molli, soppesate, guardinghe.
Perché Di Maio ha capito, come Andreotti ma con molte più giravolte di Andreotti in molto meno tempo di Andreotti, che comandare è meglio che fottere.
Tutto scorre e tutto cambia, per carità. Ho conosciuto di persona gente che sputava sulle foto di Di Maio e oggi ci si fa i selfie assieme. Credo che anche Di Maio sia stato spettatore di sé stesso, che anche lui abbia assistito come noi alla sua clamorosa disillusione. Diventando uomo e capendo che il mondo è cosa più complessa di come la rappresentavano i club pentastellati, Di Maio si è reso conto che una cosa è stare in tribuna e insultare i giocatori prendendoli per brocchi, disonesti o sfaticati, altra è scendere in campo, sudare e sporcarsi di fango.
Qualche giorno fa il ministro ha dichiarato che i Cinquestelle stanno diventando una centrale dell’odio. E qui le attenuanti della naturale maturazione non valgono. Perché di quella centrale dell’odio lui è stato una delle fonti principali, il teorico del “noi siamo gli onesti e tutti gli altri i ladri”. Quel “diventare” è un clamoroso falso, perché il movimento che oggi sprofonda nel precipizio del suo fallimento è stato fondato prevalentemente proprio sull’odio, un odio cieco e qualunquista.
Ora la nemesi storica si abbatte su Di Maio.
Se è vero che è diventato uomo, dovrebbe sopportarla in silenzio. Se è diventato uomo vero, dovrebbe aggiungere che di quell’odio lui è stato il primo responsabile e rinnegare il suo passato e i suoi Bibbiano.
Dovrebbe dire di essersi sbagliato, ammissione che da un politico credo di non aver mai sentito.
Caro Luigi, sappi che a me oggi appari molto meno inadeguato alle istituzioni di quanto mi sembrasti anni fa, quando entrasti in scena con faccia da bambino e abito da prima comunione per raccontarci come il mondo fosse un brutto posto e tu il Salvatore. Il mondo è rimasto un brutto posto, ma adesso a te piace.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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