Immigrati marchiati col pennarello come in una moderna shoah; reticolati per bloccare la loro fuga disperata; frontiere (che da decenni nessuno controllava più) improvvisamente sbarrate; l’Eurotunnel di Calais (simbolo dell’Europa che si fonde) presidiato come i check point tra le due Berlino durante l’era buia della Cortina di Ferro: e sì, la grande fuga dal Medio Oriente, dal Nord Africa e dall’Africa sahariana verso il sogno europeo ha cambiato in peggio l’Europa. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando nel 1963 il presidente Kennedy diceva al mondo intero “io sono berlinese, siamo tutti berlinesi”. Ma allora, permettetemi di usare una sintesi ardita cara da sempre alla destra, era una questione di democrazia contro il comunismo, di bene contro il male, di buoni contro i cattivi. Dietro questo muro che l’Europa sta creando contro chi fugge da guerre, genocidi, fame e mancanza di ogni speranza, mi sorge il dubbio di essere dalla parte dei cattivi. Anzi, dei peggiori, perché l’Europa predica bene e razzola malissimo. A causa di questa ventata xenofoba e anti-immigratoria rischiano persino i nostri europeissimi figli che potrebbero vedersi sbarrare la strada per l’estero alla ricerca di un futuro lavorativo che gli è negato in Italia. Nonostante le migliaia di morti, le stragi shock nel Mediterraneo, i Tir della disperazione anticamere a gas dei lager nazisti e le spiagge coperte di cadaveri, più che l’indignazione mi sembra che nella civilissima e cattolica Europa stia crescendo il razzismo più becero. Ma possiamo consolarci: l’altrettanto civilissima e pragmatica America, di cui paghiamo le malefatte in Medio Oriente e Nord Africa, il suo muro della vergogna ce l’ha dal 1994: sono i reticolati e i muri che dividono gli Stati Uniti dal Messico. Una barriera fisica per separare il sogno americano dalla disperazione dei latinos, una barriera per bloccare l’immigrazione di manodopera clandestina negli States. Non è un’unica grande muraglia, ma blinda centinaia di chilometri di frontiera nelle grandi città di confine come San Diego ed El Paso. Per i resto dei tremila chilometri di frontiera ci pensano i deserti e le montagne e una continua vigilanza con elicotteri, pattuglie e occhi elettronici. Se ai “democratici” europei serve qualche dato per motivare la propria xenofobia, cito da Wikipedia: tra il 1º ottobre 2003 ed il 30 aprile 2004, 660.390 persone sono state arrestate dalla polizia di confine statunitense mentre cercavano di attraversare illegalmente il confine. Nell’ottobre 2004 la polizia di confine ha dichiarato che 325 persone sarebbero morte negli ultimi 12 mesi, nel tentativo di passare la frontiera. Dal 1998 al 2004, secondo i dati ufficiali, lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, sono morte in totale 1.954 persone. Ma a Tijuana, c’è un campo con tremila croci bianche: tanti sarebbero i morti solo nella zona di confine della California. E i “passatori” messicani non sono meno feroci degli scafisti del Maghreb: nel Mediterraneo gettano in mare uomini, donne e bambini a centinaia di metri dalle coste anche se non sanno nuotare, a Sonora li abbandonano nel deserto senz’acqua e senza nemmeno dire in che direzione devono marciare. Siccome perseverare è diabolico, nel 2006 – mentre nel deserto di Sonora o sul monte Baboquivari in Arizona i clandestini morivano a decine nel tentativo di raggiungere il sogno americano – il governo di Washington ha approvato la costruzione di altri mille chilometri di muro e di ostacoli anti-auto. Anche in America ne è passata di acqua sotto i ponti da quando noi europei straccioni tentavamo la fortuna nel Nuovo Continente passando per i cameroni e le commissioni di immigrazione di Ellis Island. I neri, invece, in America c’erano già: erano i figli degli schiavi razziati in Africa e più o meno liberati. Ma anche per loro la strada per l’integrazione e la parità non è ancora finita. Anche se l’America ora ha un presidente afroamericano. Mi permetto una personalissima valutazione conclusiva: la democrazia non è una questione di patenti che ci firmiamo da soli ma di fatti concreti. E sino a ora l’Europa ha fatto poco e malissimo. Per questo dico ancora una volta no ai muri della vergogna.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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