Il delocalizzatore è la tragica immagine dell’imbarbarimento dei rapporti di lavoro. E’ l’imprenditore emblematico che colloca la propria azienda dove il lavoro costa meno, dove la situazione politica e sindacale gli consente di pagare quanto meno possibile gli operai e di sfruttarli quanto più possibile. E’ il capitalista che supera di un balzo tutti i significati sociali ed etici che il capitale negli ultimi secoli è stato costretto ad assumere dopo sanguinose lotte di massa. Il delocalizzatore è il rappresentante di quel potere finanziario ora egemone che convince i disoccupati e i precari che i nemici sono i lavoratori ancora in possesso di un regolare contratto di lavoro e che difendono i loro diritti (“Quell’operaio che non rinuncia ai suoi privilegi sta pregiudicando il tuo futuro”) o i pensionati che non si lasciano morire di inedia, possibilmente in luoghi desertici per non dare fastidio. Esiste cioè una enorme fetta di opinione pubblica, forse maggioritaria, che in tutto il mondo ascolta e addirittura vota persone ricchissime che spiegano ai poverissimi come devono comportarsi per non rompergli i coglioni. E se non ascoltano direttamente i ricchissimi, pendono dalle labbra dei loro scoperti emissari. Ciò che dal Settecento in poi ha faticosamente costruito una parvenza di sopportabile rapporto tra ricchi e poveri è stata l’accettazione da parte dei primi a rinunciare a una parte della propria ricchezza. Ma ora il delocalizzatore fa marcia indietro. La globalizzazione, la crisi della sinistra, il razzismo montante e sempre più massivo gli consentono di riaffermare la componente egoistica e asociale del capitale: il profitto è sacro, anche a costo di tornare a livelli di sfruttamento che sembravano consegnati a una storia lontana. I sondaggi sul voto imminente dicono una cosa atroce che nessuno guarda. Perché lo dicono nelle appendici, fuori dagli onanistici lambiccamenti sui futuri governi e sugli equilibri tra le componenti di una classe politica che non si sa più quanti e chi rappresenti. Dicono, quei sondaggi, che la stragrande maggioranza degli elettori dei discorsi sulla giustizia sociale e la distribuzione dei profitti, dei doveri sociali dell’impresa e dei diritti dei lavoratori se ne fotte alla grande e una battuta azzeccata da Vespa o da Floris vale più della coscienza di essere sfruttati.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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