Nella bellissima e intensa intervista apparsa oggi sul quotidiano La Repubblica, Ezio Mauro cammina con molta delicatezza nei labirinti dell’orrore e prova, dialogando con Luca Traini ( il ragazzo di 29 anni che proprio lo scorso anno rischiò di scatenare una vera e propria carneficina per un assurdo sentimento di vendetta che lo portò a ferire dei passanti per strada solo perché erano di colore) a ragionare su ciò che è stato quel rigurgito razzista, a quel che è stato il voler ostentare il saluto romano, l’amore per la patria, la bandiera, la follia di un gesto che, fortunatamente, non ha lasciato morti sulla strada. Quel che colpisce nell’intervista è la consapevolezza, da parte del colpevole, di aver commesso un errore enorme, inequivocabilmente inutile che lo ha portato ad una condanna in quanto – e probabilmente lo ha scoperto solo dopo – in uno stato di diritto non è contemplato farsi giustizia da sé. Lui, il vendicatore solitario che ha tatuato sulle dita di una mano “outcast”, emarginato, ha scoperto in carcere di essere emarginato tra gli emarginati, neri compresi. Così ha raccontato Luca, forse con l’impaccio di chi ha compreso l’inutilità e la stupidità del gesto, forse perché il carcere, come direbbe Totò, è una livella, forse perché il carcere costringe a guardarsi dentro e prima di rimovere le macerie obbliga a tutti di osservarle. Il tempo, in carcere, non manca e occorre utilizzarlo in un certo modo, anche se i ritmi dentro una cella sono organizzati dall’istituzione totale. Capita, inoltre, che le tue macerie accumulate nel tempo debbano unirsi a quelle degli altri e in quel momento, proprio in quel momento, ti rendi conto che il tuo gesto, la tua scelta è soppesata dal tempo e dall’impossibilità i modificare gli eventi. Luca Traini, sparando all’impazzata, come se fosse entro un videogioco, ha dimostrato che il suo acting-out era solo un prodotto di pancia, non vi era nessuna considerazione sulle possibili conseguenze che l’atto avrebbe prodotto. A volte si pensa: lo faccio perché è giusto, importante, lo faccio perché devo farlo. Quel modo di vedere le cose è molto pericoloso ma è anche molto umano: un atto inconsulto non è necessariamente folle ma è – ed è questo il punto – figlio di stratificazioni sociali che negli anni si sono sovrapposte. Così Luca Traini si è sentito quasi in dovere di agire, di fare qualcosa per un’italiana massacrata da un negro, ma lo stesso meccanismo non sarebbe mai scattato se a uccidere la ragazza fosse stato un bianco. La lezione che il vendicatore maldestro ha imparato dal carcere è che quando l’adrenalina sparisce e si finisce in una cella è il momento del confronto. In carcere ha trovato i famosi “negri”, che oggi chiama soltanto neri e ha scoperto – a caro prezzo – che da quelle parti si è tutti “poveri cristi” e che gli spacciatori, gli assassini e i rapinatori non si distinguono per il colore della pelle. Nella livella del carcere non c’è spazio per il razzismo e se c’è serve davvero a poco.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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