Fiorenzo Caterini A partire soprattutto dal dopoguerra, si pensò di ricostruire le foreste sarde, devastate, scotennate, tagliate e ritagliate per oltre un secolo, a partire dai primi decenni dell’800. Quelle vicende le ho narrate nel libro “Colpi di Scure e Sensi di Colpa”. La Sardegna era stata improvvisamente catapultata nel sistema economico mondiale mercantile, e la concezione imperante che si era affermata all’epoca era quella dell’utile. Una concezione liberista che ha portato l’Europa, alla fine, ai tragici esiti delle due guerre mondiali. La ricostruzione della vegetazione sarda fu una scelta obbligata, per porre rimedio a quello scempio, che aveva provocato una recrudescenza, oltre che della malaria, del dissesto idrogeologico, dell’aridità dei suoli, della siccità, degli incendi e delle alluvioni. Da qualche decennio le concezioni liberiste hanno ripreso vigore, travolgendo anche, tra gli altri, gli ambienti della politica italiana senza distinzione di fede. E’ tutto un inneggiare e invocare privatizzazioni e liberalizzazioni, a discapito di un senso del bene comune che si sta progressivamente perdendo. In questa ottica si può interpretare la scelta nel programma dell’Ente Foreste di utilizzare una parte dei suoi boschi per le centrali a biomasse. E’ chiaro che, dopo tanti anni di sprechi e di clientelismo politico, il bilancio dell’Ente è da riassestare. La gran parte dei consistenti fondi di bilancio servono per le spese correnti, in particolare per il costo della mano d’opera. Tuttavia i cantieri regionali, superate le concezioni “a rapido accrescimento” alloctone degli anni ’60, rappresentano oggi dei compendi forestali di grande valore ambientale e paesaggistico. Come ho rappresentato nell’articolo Le foreste sarde in conto dare e in conto avere, non è possibile quantificare, con parametri “economicistici”, i benefici, non solo morali, ma propriamente economici, che possono apportare la presenza e la cura dei boschi. Grazie a quest’opera, il patrimonio boschivo sardo è stato in parte ricostituito; un’altra consistente parte, invece, sta ricostituendosi a causa dell’abbandono ultratrentennale dell’agricoltura. In questo ultimo caso, per rubare l’espressione al paesaggista Gilles Clement, ci ritroviamo dentro una sorta di “terzo paesaggio”, un mondo transitorio di cui ancora non abbiamo deciso bene che farne. Dei boschi regionali in gestione all’Ente Foreste, invece, si impone un suo utilizzo affinché non resti un patrimonio solo morale e possa contribuire al suo bilancio. Per poter utilizzare al meglio la possibilità offerta dal business incentivato delle biomasse, la Regione Sarda ha programmato la riconversione di parte del suo patrimonio boschivo da fustaia a ceduo. Una terminologia tecnica che, in realtà, nasconde una prima massiccia utilizzazione del patrimonio boschivo con il suo assestamento ad un grado di evoluzione meno naturale, che consente, attraverso la ricrescita dei polloni dalle ceppaie, la possibilità di utilizzare biomassa più minuta e più idonea all’impiego. Tronchetti più sottili, insomma, per bruciare meglio nelle centrali. Una conversione che verrà certamente fatta sotto la guida di personale esperto che curerà di non scoprire in maniera eccessiva il soprassuolo e di lasciare un certo numero di matricine per ettaro, ovvero di “piante di riserva” utili per la rigenerazione del bosco. Occorre precisare, per evitare facili radicalismi, che i boschi sono tutti, in un modo o nell’altro, sottoposti ad un trattamento selvicolturale. Si tratta di scegliere il più idoneo allo scopo. Un bosco fragile e in crescita verrà sottoposto esclusivamente a tagli colturali, di sfollo o di selezione, un bosco maturo a tagli di utilizzazione, al fine di asportare la parte in eccedenza di legname per gli usi produttivi, che nel caso delle leccete sarde si limitano alla legna da ardere. In questo caso la moderna selvicoltura prevede una asportazione graduale, ciclica, del legname, in modo da garantire la rinnovazione perpetua dell’ecosistema e della produttività. Ma in questo caso viene contraddetta una norma quasi sacra della selvicoltura moderna, ovvero la trasformazione da fustaia a ceduo, che in genere è vietata. In pratica si ingenera artificiosamente una regressione dell’ecosistema. Un po’ come consumare una parte del capitale bancario, o vendersi una parte dei gioielli di famiglia. E per condurre artificiosamente ad un grado involutivo inferiore l’ecosistema, anche se con i metodi meno pervasivi che ci possono essere, non si potrà fare comunque a meno di un intervento traumatico sul soprassuolo boschivo. Si dirà che è cosa anche comprensibile nei periodi di crisi. Un sacrificio per ripartire con una nuova politica. Ma in realtà, a mio parere, ci troviamo di fronte a quella che i sociologi chiamano “dipendenza dal sentiero”. Una dipendenza storica da un sentiero dalla quale non riusciamo ad uscirne, il sentiero del modello di sviluppo imposto dall’esterno che ha visto da sempre la Sardegna produrre quasi esclusivamente materie prime provenienti da microsistemi economici disintegrati e di tipo monoculturale. In particolar modo la Sardegna nella sua storia ha prodotto materie prime per l’energia, tanto che l’isola è ampiamente autosufficiente ed anzi esporta oltre il 40% di quella che produce, attraverso un potentissimo cavo sottomarino, il SAPEI, che Terna, guarda caso, si è affrettata a realizzare di recente, senza concreti benefici per l’economia locale. Non vorrei neppure parlare dell’area parco, della zona SIC e del nido dell’astore che verrà perduto, perché poi si finisce per addossare, agli elementi della natura, responsabilità che non gli competono. Parlo invece propriamente degli aspetti sociali ed economici della vicenda. Proseguendo su questa strada, si potrà anche ridurre il costo dell’Ente per qualche anno, ma si intaccherà, ancora una volta, il prezioso capitale dell’ambiente sardo. Ne vale la pena? E anche in questo caso, ci ritroviamo di fronte all’ennesima monocultura. La “monocultura del leccio”, come l’ha definita l’amico Giampiero Poddie. Cantieri forestali che hanno prodotto in questi anni solo leccio per legna da ardere, pronti per la loro riconversione in energia per lo sfruttamento esogeno. Veniamo allora al quesito posto dal titolo. Come rendere le foreste sarde produttive senza distruggerle, o comunque senza limitarle nel loro grado evolutivo? Io credo che occorra, intanto, uscire fuori dalla cultura politica, neoliberista, dell’ossessione del bilancio. In particolare occorre ragionare sui boschi della Sardegna come grande opportunità di sviluppo e di ricostituzione economica e sociale. Vi sono, all’interno della Regione Sardegna, figure professionali di altissimo profilo. E ci sono tanti giovani laureati in materie scientifiche, con tanto di master e di esperienze di studio all’estero, lasciati nel più completo abbandono da parte di questa società tutta tesa a saldare bilanci e a fare la competizione con sé stessa. Io credo che il bosco, fuori dalla monocultura del leccio, fuori dal solito sentiero del modello di sviluppo imposto, possa essere un grande laboratorio sperimentale di produzioni naturali. Non è possibile, mi dico, che da una così grandiosa massa organica non possano venire fuori prodotti, castagne, nocciole, funghi, frutti di bosco, lumache, piante officinali, orti biologici, miele di qualità, allevamenti di specie animali di ogni tipo. C’è tutto un campionario di prodotti che la fertilità accumulata in questi anni dal bosco può tirare fuori. Ad esempio, vi sono significative esperienze di produzione, in modo sostenibile, del pellet da boschi sardi. Occorre pensare ad aziende che producano posti di lavoro utilizzando una prospettiva integrata, con molteplici produzioni locali. Dico una cosa che oggi potrà apparire come una eresia. Credo che, invertendo l’attuale moda della privatizzazione, possa essere la Regione Sarda, con i suoi enti sperimentali e con assunzioni mirate di personale qualificato, a promuovere una stagione di intervento del settore pubblico con una sperimentazione integrata. Ci sono già esperienze in questo senso davvero interessanti e la stessa Regione, forse con non troppa convinzione, sta provando a battere nuove strade. Chiaro che c’è da vincere la sfida del mercato, cosa non facile. Tuttavia mi chiedo, ad esempio, se un marchio regionale che possa garantire l’assoluta naturalità dei prodotti, privi di qualunque additivo chimico (consentito dalla fertilità accumulata dal bosco e dalla presenza di una forte naturalità), non possa costituire un grande richiamo promozionale, con ricadute a cascata sul tutto il sistema Sardegna. Mi rendo perfettamente conto che è molto più semplice tagliare piante e buttarle in centrale, per far rifiatare il bilancio. Ma non credo che questa possa essere una soluzione ai guai dell’Ente, e neppure di aiuto alla Sardegna.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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