Sono attestato su una stradina scoscesa e stretta, col mio collega. Lui tira la manichetta, io ho in mano la lancia. Il mostro rovente di tuoni e cavalli al galoppo sopraggiunge in un turbine fragoroso. Stringo la cosa più preziosa che ho in quel momento, una bottiglia di acqua fresca che una mano santa, sbucata da uno stazzo vicino, mi ha sporto. Dentro i pesanti dispositivi di protezione, sono un bagno di sudore bollente. Ogni ora sul fuoco, un litro di sudore. Ho risucchiato nel minor tempo possibile quanti più sorsi possibili e me ne sono tirato addosso un po’, per abbassare la temperatura corporea. Accanto a me un giovane, sudato e arrossato, forse persino scottato durante la lotta per difendere l’azienda agricola di famiglia. Lui non ha protezioni. Gli passo la bottiglia dell’acqua fresca. Ripenso a quella scena come se fosse al rallentatore. Il fuoco è un demone con tante teste ed una enorme coda biforcuta, un mostro ineffabile e imprendibile. Ma odia l’acqua. Intanto, arriva. Per spaventarci rumoreggia, strepita, urla, scoppia, esplode. Teniamo duro. Si combatte. Poi lo vedo, con la coda dell’occhio. Anzi, non lo vedo ma lo sento. Avvolto nel turbine, salta galoppando su quel macchione di lentisco, trainando il suo enorme carro mulinante di carboni ardenti e pietre roventi. Un vortice temporalesco lo nasconde. Mi butto là dentro lancia in resta, spruzzando acqua per abbassare fuoco e fiamme. Il paradosso della lotta al fuoco è che quando hai più bisogno di ossigeno per respirare, che sei al massimo dello sforzo, il demone, malvagio, ti secca l’aria e la riempe di fumo, ceneri e polvere. La bocca si affanna a cercare aria, ma raccoglie tempesta ardente, e panico. La gola si strozza, i polmoni bruciano. Il fuoco è passato, lasciando, a testimonianza della sua malvagità, i rami carbonizzati degli alberi. Il collega riavvolge veloce la manichetta e getta la lancia nel cassone. Si torna indietro e ci si attesta nell’altra stradina dietro. Sappiamo entrambi che quell’imbuto è una situazione critica. Anzi drammatica. Mi chiama al telefono, preoccupato, il sindaco del paese a valle, di cui sono il comandante della Stazione Forestale, e gli spiego. Se passa il fuoco, brucia il cantiere forestale, arriva in paese, come nel 1983, lo stesso incendio di Curraggia, quando fu salvato grazie a due fratelli, coraggiosi ruspisti. Mi manda i suoi vigili, l’autobotte del comune, acqua per bere. Attestati lungo la strada statale, stanno una lunga teoria di mezzi dei Vigili del Fuoco, per impedire che le fiamme non la saltino e conquistino il costone a nord. Loro si attestano lungo la viabilità principale e le abitazioni, noi (il Corpo Forestale) nei campi e nei boschi. Così dicono le disposizioni. Ma poi, come in quelle partite di calcio concitate, finisce che le marcature saltano e si fa tutto il possibile, guidati dalla professionalità e dal buon senso. Le autobotti grandi dei VVF riforniscono quelle piccole del CFVA, più agili, che si incuneano nelle stradine scoscese e su per i campi. Intanto si trovano rinforzi ai nostri comandi. Il fronte è ormai talmente vasto che le decine di mezzi accorsi vengono richiamati da tutte le parti. Reclutiamo un mezzo dell’Ente Foreste, con i loro attempati operatori, e uno con i volontari della Protezione Civile. I volontari sono encomiabili, spesso rinunciano a ferie e riposi per mettere insieme un equipaggio. Bisogna tenerli un po’ d’occhio: ci sono equipaggi esperti, che sanno il fatto loro, ed equipaggi meno esperti. A volte fanno tipo “viva il parroco”, come nelle partite di calcio dell’oratorio, tutti dietro al pallone, tutti dietro al fuoco. Ma ci danno una grossa mano. Ma quello era il “nostro” affidabile equipaggio, del nostro paese. Ci attestiamo sulla nostra linea Maginot, ben sapendo, avendo osservato la colossale colonna di fumo mentre arrivavamo, che il fronte del fuoco non si limitava a quello che avevamo visto e che anzi, la strada statale e la stradina comunale su cui eravamo attestati non erano altro che il fianco dell’incendio. Difficile descrivere la concitazione. Cellulare che squilla, la gente che urla, i mezzi che sfrecciano, le radio che gracchiano. In lontananza le urla di una donna disperata che non si dà pace, squarciano il frastuono. Per ricordare gli eventi, la memoria ricostruisce le scene, nella nebbia del ricordo, al rallentatore. Ecco, arriva la chiamata per radio, riconosco la voce del Capo. Caterini, dove si trova? ci sono tre elicotteri e cinque aerei, lei prenda i Canadair XX e il YY e gestisca quel fronte. Devo abbandonare il collega, e correre in un punto alto per dirigere i Canadair, come DOS, direttore delle operazioni di spegnimento. La cattiva notizia è che il fronte è talmente vasto, che il DOS della locale Stazione Forestale, da solo, non può più gestire le operazioni. Reclutano i comandanti delle stazioni vicine. Siamo in tre a coordinare le operazioni. Con me un altro sottufficiale, esperto del territorio. Mi spiace dividere la pattuglia. Per ragioni di efficienza e di sicurezza un mezzo antincendio, anche se piccolo, deve avere due addetti. Il mio collega però trova il Maresciallo dei Carabinieri del nostro stesso paese, a dargli una mano. Srotolano insieme la manichetta. Il servizio d’ordine è già assicurato da congruo numero di carabinieri e vigili urbani sopraggiunti dai paesi circostanti. Il mio collega, cinquant’anni superati da un po’, con qualche problema di salute di cui non se ne cura tanto, e due figli piccoli, si butta come un demonio sul fuoco, avversario miserabile e carogna. Vorrei dirgli, all’avversario miserabile e carogna, appunto, che abbiamo dei figli. Ma tanto, nel frastuono, l’avversario miserabile e carogna, non ascolta, passa sopra la stanchezza e i pensieri di ciascuno di noi, e ci irride. E’ una partita a scacchi con un avversario non solo carogna, ma anche sleale. Il demone con tante teste e con l’enorme coda biforcuta, ti soffia in faccia l’alito rovente e irrespirabile, ti soffoca e ti acceca, e la scacchiera sprofonda nel gorgo, scompare, non la vedi. Allora muovi le pedine, i mezzi a terra e in aria così, ad esperienza e intuito. Alzo lo sguardo. Non vedo orizzonte. Solo fiamme, fumo, lampeggianti accesi. Le teste del mostro sono tre. Tre teste, tre direttori. Chiamo via radio, con il pesante TBT (terra bordo terra) i “miei” Canadair. La situazione è critica, drammatica, ma immagino che non sia molto diversa per gli altri due DOS. Indico ai piloti il punto esatto in cui devono sganciare. Direzione Nord, lato sinistro. Ricevuto. Per radio il collega, che sta sotto sul fronte, mi spiega. I pochi mezzi lottano disperatamente per impedire la tragedia, che il fuoco salti la strada e si diriga verso il canalone e il cantiere forestale. Lo tranquillizzo, arrivano i nostri. Dieci secondi al lancio, gracchia la radio. Sono i “miei Canadair”, ma non li vedo. Sono sconcertato. Dove stanno sganciando? Corro più in alto su per il crinale. Non vedo nulla. Rispiego. Negativo, lancio negativo. Più a Nord, ancora più a Nord. Ricevuto. Dai che arrivano, resistete, dai che arrivano i nostri, su. Ancora nulla, i Canadair, in mezzo al fumo e alla confusione, sganciano da un’altra parte. Mi assale lo sconforto. Il collega chiama per radio. Fiorè, qui salta tutto, è un macello. Non ce la facciamo, non ce la facciamo. Vedo, sotto di me, le fiamme sempre più alte. Hanno preso un canneto, che esplode lanciando scintille dappertutto. Un altra lingua di fuoco mi corre sopra, sul crinale. Quando due lingue di fuoco corrono parallele, finiscono per unirsi con una sorta di esplosione. Si amano pazzamente, si attraggono per una strana legge della fisica. Provate ad avvicinare due candele accese, per vedere l’effetto che fa. Io ero in mezzo. Il collega mi avvisa via radio. Si sta sempre a vista, per quanto possibile. Fiorè, guarda che stai in mezzo. Io nel frattempo avevo già individuato, insieme all’altro sottufficiale, secondo il protocollo di sicurezza, sia il punto di ancoraggio, dove non c’è combustibile, sia la via di fuga. Grazie collega, siamo al sicuro. Ma qui non ce la facciamo, mi fa sconsolato. Non ce la facciamo. Faccio il diavolo a quattro per far arrivare i due aerei. Il fronte è talmente frastagliato, come le dita di una mano aperta, che ogni dito, nel fumo, sembra quello Nord lato sinistro. E io non vedo, non so com’è il fronte dietro il crinale, quante lingue confondono gli aerei. Il mio fronte è nascosto, incassato nel vallone. Gracchia la radio. La voce è netta. Dobbiamo ritirarci, Fiorè, non resistiamo. Il cantiere forestale è a 50 metri. Lancio via radio una attenzione generale. L’ultima carta gettata a casaccio nell’etere. In basso, gli operatori dell’antincendio sono costretti alla fuga. Credetemi, solo nei film, o nei sogni, accadono certe cose. Vedo, alla mia quota, di fronte a me, sbucare dal fumo la sagoma gialla del Canadair. E’ un sogno, certe cose accadono solo nei film. Dietro un altro Canadair. Il “mio” secondo Canadair. Dietro un altro. Poi un altro. E un altro ancora. Tutti e cinque. Sto sognando, è un miraggio. Cinque Canadair. Una scena, quella dei Canadair perfettamente allineati, davanti a me, uno dietro l’altro, con quel rombo e quella apparente lentezza, che sembra che galleggino nell’aria, che non scorderò mai. Gli do le ultime coordinate. Arrivano i nostri. Uno dietro l’altro, i Canadair, invenzione perfetta della meccanica e dalla concezione tecnica assoluta, si abbassano improvvisamente sulle fiamme, quasi ad altezza d’uomo, le schiaffeggiano, riducendole ad una nuvola di fumo. Riprendono poi a saettare, le fiamme, ma molto più basse. Si buttano su quelle fiamme indebolite gli uomini dei mezzi a terra, rincuorati. Il collega sottufficiale scende a dare manforte. Poi dopo quel treno di Canadair, arrivano gli elicotteri, tutti e tre. Ci accordiamo con gli altri DOS, i Canadair a sud e gli elicotteri a nord, per evitare pericolosi incroci. Prende fuoco il crinale, i due fronti si saldano, ma io sono già nella via di fuga. Ronzano gli elicotteri sopra la testa, gli fornisco le poche informazioni di cui hanno bisogno. Mi torna in mente un discorso fatto proprio il giorno prima con un altro collega. Mai stare sotto i fili dell’alta tensione, anche se hanno disattivato la linea, non si sa mai. Chissà perché mi è venuta in mente, proprio ora, questa discussione. Guardo sopra la testa. Ero esattamente sotto la verticale dell’alta tensione. Vicino e me, gli elicotteri sganciando tonnellate di acqua. Faccio un balzo indietro che manco Carlo Lewis. Lo so, è banale dirlo, ma ho pensato ai miei figli, in quel momento. Con l’imbrunire, le fiamme si abbassano. Due anni consecutivi di siccità, hanno favorito la mano dell’incendiario che ha appiccato il fuoco su diversi punti. Mai visto il fuoco correre così velocemente con il ponente. La terra è riarsa. Devo ritrovare la strada per rientrare prima che si faccia buio. Scavalco un muretto a secco a fatica, per ricongiungermi al collega e al mio automezzo. Due persone cercano di salvare l’ultimo fazzoletto di pascolo dal fuoco. Non mi rompa anche il muretto, ho perso tutto, scuote la testa il più anziano. Lo aiuto a salvare il salvabile con una frasca. Sono operatori dell’antincendio anche loro, che spesso te li ritrovi fianco a fianco. Sono operatori dell’antincendio anche gli allevatori che si buttano in mezzo alle fiamme per salvare il bestiame, le loro bestie. Ho notato che in quel salvataggio c’è un senso del dovere che li pervade; l’idea, cioè, che prima di tutto, la custodia degli esseri viventi sia un dovere che venga prima degli altri beni di valore. Non so se definirlo amore per gli animali, magari non nel senso cittadino e borghese del termine, tuttavia è un sentimento nobile ed eroico che va ben oltre il valore etico del portafoglio. Intanto spegniamo gli ultimi fuochi, che è notte. E’ il momento del briefing, di capire cosa è successo e cosa fare. La vedetta ha avvistato subito l’incendio, i mezzi sono intervenuti prontamente. Il Capo scuote la testa. Non ci si capacita di quanto accaduto. L’incendio ha preso subito una piega imprevista, ha saltato un muretto a secco con la siepe, ha dilagato in un campo, si è subito sparpagliato e ha preso le prime alture ricoperte di macchia. Non c’è stato verso. Il fuoco ora prosegue, nottetempo, anche se lentamente, lontano, verso il lago e gli olivastri millenari, sorvegliati da un mezzo dell’Ente Foreste. Il nucleo di polizia giudiziaria ha ritrovato due micce incendiarie. Il che non era scontato, perché anche se la retorica comune evita di dirlo, perché non fa notizia, molti incendi gravi partono per menefreghismo, distrazione e incuria. Ma in questo caso no. Da tempo ci sono delle tensioni, delle vendette in atto, su quei terreni. Gli investigatori sono al lavoro. Si approntano le pattuglie e i mezzi notturni in accordo con la Sala Operativa del Corpo Forestale, dove fa capo il coordinamento di tutti gli enti e le forze intervenute. Poi domani mattina sveglia all’alba, si ricomincia. Rientro in stazione. Rimodulo i servizi nel sistema online. Mando un messaggio rassicurante alla famiglia. Mi getto sotto la doccia, dopo aver bevuto litri di acqua, mangio un boccone al volo, e infine mi butto stremato su un materassino, per terra, per quelle quattro ore di sonno concesse. Ma non prendo sonno. La mia mente continua a lavorare. Si materializzano, uno dopo l’altro, tutti gli incubi del DOS. Il Canadair che sbuca dal fumo e centra in pieno l’elicottero, senza fare in tempo ad avvisarli. Il mezzo aereo che centra i cavi dell’alta tensione e cade in un turbinio di scintille. Lo schiaffo d’acqua del Canadair (lo hanno visto ribaltare automezzi pesanti) o il cestello dell’elicottero che prendono gente in pieno. Automezzi antincendio che si scontrano o investono gente. Operatori presi in mezzo alle fiamme, e io urlando via radio inutilmente. E così via, per quelle poche ore notturne rimaste. Finalmente giunge l’alba: ci organizziamo per spegnere le ultime fiamme con il collega comandante della giurisdizione. La vallata, quella che non vedevo perché impedito dal crinale, è un deserto di centinaia di ettari di cenere e mozziconi sgorbi di piante. Una testuggine giace carbonizzata in mezzo ai carboni accesi. Arrivano due Canadair, due elicotteri e parecchi mezzi a terra a dare il cambio a quelli che hanno lavorato tutta la notte. Dai nostri punti di osservazione restiamo vigili per scorgere ogni fiammata, ogni colonna di fumo, pronti ad inviare un mezzo a terra o aereo a seconda dell’opportunità. Il fuoco cammina sottoterra, nelle radici, anche per giorni, poi riemerge improvvisamente a sorpresa, in un modo che non è possibile prevedere con certezza. Vedere, all’alba, le evoluzioni di questi piloti, è uno spettacolo fantastico. Le acrobazie per centrare in pieno le riaccensioni, mi fanno pensare da quale scuola provengano questi piloti, sia di aereo che di elicottero. Sono per la maggioranza piloti italiani, ma c’è anche qualche pilota sardo di elicottero. Rischiano la vita per salvare un bosco, una stalla con gli animali, una pianta. Buttiamo giù tanta di quell’acqua che alla fine non fila neppure un fumaiolo. Ma sappiamo che il demone, sleale e carogna, è acquattato sotto la terra cocente, pronto a riemergere nei prossimi giorni, quando meno te lo aspetti. Finalmente, di sera, posso rientrare a casa. Stanco di una stanchezza che torce il fondo dell’anima, guido verso casa, attraversando quella mezz’ora di bella terra verde, la Gallura, che mi ospita da oltre vent’anni. A sinistra, ad un tratto, la cicatrice nera dello scempio. Sarà la mia condanna, la pena che dovrò scontare chissà per quanto tempo, vedere tutti i giorni lavorativi quello sfregio. Entro a casa. Sento il bisogno di abbracciare i miei figli, che di solito accorrono festanti dopo le mie assenze. Ma questa volta sono impegnati nei videogiochi. Ciao Papà, mi fanno i figli, senza alzare lo sguardo, indaffarati tutti e due, insieme, in chissà quale avventura virtuale. Stiamo giocando con questo videogioco nuovo, Papà. Anche io ho giocato con il videogioco. Mia figlia alza gli occhi e sorride, conoscendo la mia avversione per quegli aggeggi. Si avvicinano tutti e due, con quel fare guardingo come solo i bambini usano, notando qualcosa di anomalo, di diverso dal solito. Papà, ma stai piangendo? Hai gli occhi rossi… Ma no, è la cenere che me li ha arrossati, faccio io, inghiottendo un tizzone ardente. Tutto a posto, tutto bene. Appena vicini, però, li afferro e me li abbraccio stretti.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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