Le cronache dagli Stati Uniti negli ultimi mesi sono state monopolizzate dallo scontro Trump-Clinton in vista delle elezioni presidenziali di novembre.
Ciò ha significato il quasi totale oscuramento di due vicende tra loro lontane nel tempo ma strettamente legate: l’anniversario della rivolta nel penitenziario di Attica (New York), 9 settembre del 1971, e il più vasto sciopero dei detenuti delle carceri americane degli ultimi decenni, in corso da settimane e iniziato non a caso il 9 settembre di quest’anno.
Per quanto la ricorrenza sia stata ignorata dai principali organi di informazione, la rivolta di Attica è ritornata d’attualità, in particolare grazie alla pubblicazione di un libro, Blood in the Water: The Attica Prison Uprising of 1971 and Its Legacy, nel quale la storica Heather Ann Thompson ne ricostruisce dettagliatamente gli eventi, nonché le conseguenze sull’organizzazione, anche attuale, del sistema carcerario statunitense.
Il 9 settembre di quarantacinque anni fa, circa 1300 detenuti del carcere di massima sicurezza di Attica occuparono un’ala della struttura prendendo in ostaggio alcune guardie e impiegati.
La scintilla che fece esplodere la rivolta fu la notizia dell’uccisione del membro del Black Panther Party, George Jackson, nel penitenziario californiano di San Quentin.
Tuttavia, le reali motivazioni vanno rintracciate nelle continue e inascoltate rimostranze dei prigionieri riguardo le disumane condizioni di vita nel penitenziario.
Come scrive la Thompson, si trattava di una costruzione arcaica, risalente alla Grande depressione, sovraffollata di giovani, in larga parte di estrazione urbana, con bassa scolarizzazione, in prevalenza afroamericani o portoricani, con storie precedenti di detenzione, ma il più delle volte spediti ad Attica per violazioni minori e non certo abituati all’ambiente di un carcere di massima sicurezza.
A tutto ciò si aggiungevano gli abusi e le violenze subiti dai detenuti, le discriminazioni razziali, episodi di vera e propria malnutrizione, condizioni igieniche disastrose che non di rado sfociavano in infezioni e il difficile accesso alle peraltro pessime cure mediche.
Per giunta, data l’esiguità dei servizi garantiti loro dallo stato, i prigionieri erano di fatto costretti a lavorare per una paga da fame, in condizioni di brutale sfruttamento.
Nella concitazione e violenza delle prime fasi della rivolta, un secondino subì un pestaggio che ne causò il decesso alcuni giorni dopo; ciò nonostante, i carcerati furono in grado di organizzarsi e formulare una serie di rivendicazioni.
Nei giorni seguenti ebbe luogo un negoziato con l’amministrazione penitenziaria e statale, quest’ultima nella figura dell’allora governatore dello stato di New York, Nelson Rockfeller.
Per quanto venisse riconosciuta la legittimità di alcune delle richieste dei detenuti (niente più di un miglioramento delle loro condizioni di vita), si giunse a uno stallo nelle trattative, determinato dalla sordità delle autorità rispetto a una possibile amnistia per i reati commessi nel corso della rivolta.
Il 13 settembre la polizia venne autorizzata a riprendere con la forza il controllo del carcere; l’esito di tale decisione fu tragico: trentanove morti, tutti vittime delle pallottole delle forze dell’ordine, a dispetto delle iniziali accuse rivolte ai detenuti di aver ucciso dieci ostaggi; inoltre, nelle ore successive, i prigionieri furono sottoposti a violenze e umiliazioni inaudite da parte delle guardie carcerarie.
Come afferma la Thompson in un intervista, lo scalpore suscitato dalla rivolta e le distorsioni della stampa nel riferirne contribuirono alla creazione del sistema carcerario di massa odierno le cui strutture sono, per certi versi, peggiori di quanto non fossero nel 1971; un sistema dunque ancora più punitivo e produttore di violenza.
Il che ci riporta ai nostri giorni; ormai da un mese i detenuti americani stanno attuando uno sciopero che coinvolge numerosi penitenziari in molteplici Stati, una protesta che sta ricevendo una scarsissima copertura da parte della grande stampa e dei principali network televisivi.
Organizzato da movimenti come Free Alabama Movement, Free Texas Movement, Free Ohio Movement, Free Virginia Movement, Free Mississippi Movement, lo sciopero ha cause non dissimili da quelle di quarantacinque anni fa: le condizioni di vita disastrose, il razzismo, lo sfruttamento del lavoro dei carcerati da parte dello stesso sistema carcerario e da parte di numerose grandi industrie in diversi settori; una situazione per descrivere la quale gli organizzatori non esitano a utilizzare la parola schiavitù.
Anche i media italiani, come prevedibile, hanno prestato una scarsa attenzione alla vicenda; com’è noto, il sistema carcerario italiano non è un esempio di rispetto dei più elementari diritti umani, anche se forse non ha ancora raggiunto i livelli estremi di quello statunitense; e tuttavia, alcune avvisaglie iniziano a vedersi.
Viene in mente un’affermazione di Marx nel Capitale, “Il paese industrializzato più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire”, un monito che dall’economia si potrebbe estendere anche allo stato del sistema detentivo.
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