Sono passati 42 anni da quando il Presidente cileno democraticamente eletto, Salvator Allende, asserragliato nel palazzo presidenziale, decise di farsi esplodere la calotta cranica con una sventagliata di mitra. Anni duri, con migliaia di morti, rastrellamenti, torture, sparizioni, si prospettavano per il popolo cileno sotto la mano pesante e sinistra dall’ineffabile Generale Pinochet, imposta da forze oscure e malefiche. Il golpe cileno, com’è noto, ha rappresentato una fase climax della Guerra Fredda. Mai e poi mai gli statunitensi avrebbero consentito ad un paese socialista di svilupparsi in quello che consideravano il cortile di casa, l’America Latina. Mai e poi mai avrebbero consentito, ora come allora, che un paese dell’America Latina provasse a nazionalizzare le risorse. Era quello un periodo disastroso per la politica estera americana, gli anni a cavallo dei ’70, preceduti dalla crisi cubana e caratterizzati dalla guerra in Vietnam. In casa, per converso, le cose non andavano tanto meglio, con le lotte per i diritti civili, l’omicidio di Martin Luther King, per non parlare dell’assassinio del Presidente Kennedy. Meglio cambiare strategia. Tra i due “Undici Settembre”, quello del colpo di stato cileno del 1973, e quello dell’attentato terroristico alle Torri Gemelle di New York del 2001, sono trascorsi meno di un trentennio. Un trentennio dove le ingerenze del mondo predominante si sono fatte meno manifeste, più subdole e imprevedibili. Un cambio di strategia, verrebbe da pensare, collaudato proprio dal “successo” del golpe cileno. Dopo la fine della guerra fredda, con la caduta del Muro di Berlino, le giustificazioni politiche e morali agli interventi diretti avevano perso di consistenza, occorrevano dunque nuovi e più spaventosi nemici per manipolare l’opinione pubblica. Non stiamo parlando di strani complotti, ma di normalissime strategie di predominio all’interno del sistema mondiale, cioè di cose sempre esistite fin dall’alba del genere umano, quando le lotte tra i branchi di primati, per l’accaparramento delle risorse, degeneravano in guerre cruente e senza pietà. Tra il 1973 e il 2001 sembra esserci una pausa, dunque, una strategia più fondata sul “dividi et impera”, sui colpi di stato fomentati dall’interno. In fin dei conti, è sufficiente sostenere con armi, addestramento e finanziamenti la parte più guerrafondaia, radicale, fondamentalista di un paese per gettarlo nel disordine ed annientarlo. Poi nel caos si favorisce l’emergere di un governo amico, che non tolga affari alle multinazionali occidentali, che non nazionalizzi nulla, che faccia passare metanodotti ed oleodotti a piacimenti nel territorio. Per cui abbiamo visto gli statunitensi, ben supportati da inglesi, francesi e altri europei, intervenire in questi anni, pesantemente, nel nostro strategico Mare Mediterraneo e nel Medio Oriente, ricchissimo di petrolio, bombardare la Libia, distruggere quel che rimaneva dell’Afghanistan già esausto dalla precedente guerra, devastare un paese laico come l’Iraq. Con la Siria, invece, la tentazione della guerra è arrivata sull’orlo del precipizio più volte, ma ancora ci si è fermati ai sistemi, come dire, precedenti all’11 settembre. Meglio strumentalizzare le proteste popolari, fomentando disordini, rivolte, crudeltà di vario genere, fino a generare il caos. Ai comunisti si sono sostituiti gli islamici, ai campi di grano dell’Argentina i pozzi di petrolio del Golfo Persico. Gli effetti della distanza modificano la percezione della cose. All’epoca del Golpe, qua si rifugiavano gli artisti e gli intellettuali cileni che sfuggivano a quegli orrendi massacri, con nostro beneficio culturale. Ora invece, il nostro mare Mediterraneo, così piccolo e intimo, ci porta i poveri disgraziati in fuga, ci reca direttamente i cadaveri. Alla fine del trentennio breve, dunque, con questo ultimo e ormai più tristemente celebre 11 Settembre, sono rincominciati gli interventi diretti. Meno “intelligence”, insomma, e più maniere spicce, bombe e mitragliatrici. Un’ultima e piccola riflessione. E’ singolare che il crescere dell’istruzione e la diffusione dei media, tra cui internet, non abbia rappresentato un ostacolo per una propaganda faziosa e manipolatoria. All’epoca del Vietnam, i giovani di tutto il mondo diedero vita alla rivoluzione culturale. Oggi, si massacra a piacimento in Siria, nel Kurdistan, in Iraq, in Palestina e, di rivoluzioni culturali, manco l’ombra. Chissà perché. Forse perché, con la diffusione del benessere, solidarietà e cultura vengono meno. Forse perché, con la pancia piena e lo smartphone in mano, siamo, senza volerlo, passati dalla parte del carnefice.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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