La vecchia curva di Imola è come il giardino di Gaudì a Barcellona: impossibile da dimenticare. Devi sterzare all’ultimo momento e virare verso sinistra per poi provare a fuggire. Gli attimi che camminano sulle mani ingolfate impegnate a stringere il volante non li puoi fotografare, ma vivere soltanto. E ad ogni fotogramma quella curva appare e non scompare. Nei televisori, sopratuttto in quelli concavi del 1994, pareva meno dura e risoluta: pareva semplice. E probabilmente lo era per chi, come Ayrton quella curva la conosceva e la viveva e la affrontava e la superava. Sempre. Ma non per sempre. Il telecronista sbucciava le parole, ricordo la più sdrucciola di tutte: esile, per raccontare il corpo fermo e immobile, sulla curva dove gli occhi ricercavano una soluzione. E non la trovavano. Dicono sempre che molti spettatori una gara di auto o di moto la guardino solo alla partenza: sperano nell’incidente e pensano sia intrinseco nello spettacolo del circo dei motori. Ma non è così. Le automobili, per quanto belle, non hanno anima e, in ogni caso, servono gli occhi e le mani e i piedi e la follia degli uomini per farle ballare e sfiorare la vita, giocando con la formidabile voglia di stupire. Quel giorno, 1 maggio 1994, festa dei lavoratori, ero ad Alghero, a casa di un mio amico a guardare i motori danzare nella pista di Imola. Poi, di colpo tutto si fermò. Ayrton Senna, faccia costruita dentro la saudade, carnevale triste, si fermò. Per sempre. Da quel giorno – e sono passati 28 anni – le piste di formula uno sono un po’ più vuote.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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