Adesso che il pezzo su Pablito – quello di pancia – l’ho scritto, adesso che la sedimentazione delle emozioni e dei ricordi mi porta lentamente alla riflessione, mi chiedo (e dunque chiedo): perché siamo portati ad idolatrare uomini che, in fondo, hanno preso per tutta la vita a calci un pallone, hanno pedalato e macinato chilometri con una bicicletta, hanno tirato a pugni facendosi del male, hanno maneggiato una spada o inseguito la velocità. E perché lo fanno tutti di tutti i ceti sociali? Non basta la passione a spiegare le lacrime per Diego Armando Maradona, i sospiri per i tre gol rifilati al Brasile da Paolo Rossi nel 1982, i grandi disegni geometrici di due signori del pallone come Scirea e Facchetti, lo sguardo intenso di Pantani o la danza eterna di Mohamed Alì. Non basta neppure la follia dell’attimo, l’adrenalina che scorre davanti ad un televisore, le urla e le frasi inenarrabili che camminano sul cuore e rimbalzano sulla pancia. Non basta dire che tutto questo è vita, è il sogno che si insegue, qualcosa che serve a lenire la vita quotidiana. Pif, (Pier Francesco Diliberto) qualche giorno fa sul corriere della sera nell’analizzare l’amore per Maradona ha provato a raccontare tutto ciò che accade intorno ad un idolo, e ad un certo punto ha paragonato Maradona a Napoleone: un po’ mecenate, un po’ conquistatore, narciso, egoista, dolce, poco remissivo e, forse, pazzo. Quel Napoleone che siamo tutti noi. Così ha scritto Pif e riflettendo mi son detto: vuoi vedere che c’è un po’ di Napoleone in chi segue chi disegna i sogni? Siamo un po’ Napoleone e, probabilmente, felici di esserlo. Provate a domandarvi cosa ci si guadagna a non vincere un mondiale, un tour de France, la medaglia d’oro alle olimpiadi. Provate, soprattutto a domandarvi cosa ci guadagnate voi – e quindi noi – a seguire in maniera passiva quell’evento, utilizzando solo le mani per imbracciare una bottiglia o una lattina e la bocca solo per urlare. E’ il disegno di quell’attimo che non riusciamo a descrivere e narrare in nessun modo. Quei tre gol al Brasile di Paolo Rossi nel 1982 non li possiamo descrivere. Neppure in poesia. Perché quei gol costruiscono archetipi di storie che si intersecano e sviscerano ricordi. Pongo una semplice domanda: che cosa avete provato, quel giorno, dopo la vittoria dell’Italia per 3 a 2 contro il Brasile? Come vi siete sentiti? Sono trascorsi ormai 38 anni da quell’evento, tanti che l’attualità ha lasciato posto alla storia. Eppure, se ritornate a quel giorno, a quella partita, a quei gol, vi ricorderete senz’altro la scenografia che avevate accanto: affioreranno, d’un getto, tutti i ricordi di quel giorno. Paolo Rossi c’entra poco. Lui ha fatto l’impresa ma, probabilmente, i suoi gol, egoisticamente, servivano alla sua carriera, alla sua voglia di vincere. Per noi no. Quei gol rappresentavano un modo di coesistere, di divedere con altri quella piccola gioia. Quei gol servivano a raccoglierci in un crogiuolo sociale dove l’atto sportivo scaturiva in miriadi di attimi che si condensavano insieme. Ci sono, dunque, milioni di modi per ricordare quella partita, tanto quanti erano i cuori che palpitavano nel vederla. Nel bene e nel male. Perché quel giorno ci fu chi perse e toccò la polvere e chi, invece vinse raggiungendo l’altare. Paolo Rossi è stato Napoleone e noi con lui. Anche Maradona e Pantani e Mohamed Alì, solo per citare i più famosi e forse i più controversi sportivi, hanno voluto disegnare una tela con tinte forti ma che, come ogni tela astratta che si rispetti, ognuno la vedeva e la vede come vuole. Questi idoli, questi strani eroi non hanno sempre vito, non sono stati sempre invincibili. Come Napoleone. E come noi. Non chiediamoci perché abbiamo visto centinaia di volte il secondo gol di Maradona rifilato all’Inghilterra nei mondiali di calcio del 1986, il rito della bandana che cade prima di affrontare la salita di Marco Pantani, quei sei gol di Pablito ai mondiali del 1982, quegli ultimi metri di Pietro Mennea a Città del Messico e non chiediamoci perché non riusciamo a vedere, se non con terribile tristezza, quel tiro verso il cielo di Roberto Baggio alla finale americana persa con il Brasile. Non chiediamocelo perché non c’è risposta. Fa parte della nostra vita che è un po’ quella di Napoleone: siamo abituati a passare dalla polvere all’altare e a riempire tutti i frangenti con i ricordi che riaffiorano ogni volta che le immagini concretizzano l’evento. La cosa più bella e più alta è che non dobbiamo vergognarcene. Mai.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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