C’è bisogno di arrivare al fondo di questo odio, di coglierne l’essenza, di capire da cosa nasca e come venga alimentato. Io mi vado convincendo che questo odio è il risultato di una insoddisfazione posta a fondamento della nostra civiltà, come condizione stessa della sua sopravvivenza. Questo senso di incompiutezza, la lontananza di un cielo posto ad altezze diverse ma sempre intangibile, produce odio. È un’energia che deve trovare sfogo, una liberazione. Un odio trasversale che attraversa la società e ha bersagli diversi a seconda della condizione economica e del livello culturale, ma pur sempre un odio che ha bisogno di capri espiatori e di generalizzazioni e si celebra con riti collettivi. L’Istat dice che nel 2018 oltre la metà della popolazione italiana si riteneva soddisfatta della propria vita. Ma cosa si intende per soddisfazione, realmente? Torniamo indietro di ventisette anni.
Pochi giorni fa ci ha lasciato Francesco Saverio Borrelli. Rivedendo la storia di Mani Pulite e le scene di giubilo e isteria popolare, quando un potente finiva in manette nella Milano del 1992, mi sono sorpreso a chiedermi se quell’entusiasmo per il messaggio di Mani Pulite possa essere in qualche modo imparentato con il bisogno di manette, rimedi radicali, maniere spicce e risolute che oggi vengono rappresentante, nell’immaginario di buona parte dell’elettorato, da Matteo Salvini. Insomma, mi è venuto il dubbio che Di Pietro e Salvini possano essere figli della stessa Italia. Se fossi io la misura di questo teorema che ha per assiomi la popolarità in tempi diversi di Di Pietro e Salvini, in tempi diversi ma con aspettative simili, concluderei che è un’assoluta sciocchezza. Ventisette anni fa avevo vent’anni e c’ero anch’io tra coloro, quasi tutti, che esultavano alla notizia di un nuovo avviso di garanzia o di un arresto. Sghignazzavo al lancio delle monetine sull’energumeno capo del partito socialista. Vedevamo in quel magistrato molisano con la barba di tre giorni e la sintassi sgangherata il salvatore dell’Italia dall’arrogante protervia del potere politico. Quel potere politico che, calcolò l’economista Mario Deaglio, mandava in fumo diecimila miliardi di lire ogni anno. Ma oggi, che di anni ne ho quarantotto, provo autentica repulsione per Salvini, che io vedo come un fenomeno creato dalla comunicazione prêt-a-porter senza nulla della complessità connaturata alla politica vera.
Però Io insisto nel sostenere che ci siano tratti comuni tra la giustizia sommaria leggibile sulla pagina Facebook di Salvini e la bava alla bocca di chi, nel 1992, voleva tutta la politica, senza distinzioni, dietro le sbarre. Allora furono i mezzi di stampa a raccontarci quell’inchiesta come una monumentale operazione di pulizia dalla sporcizia che incrostava le Istituzioni. Istituzioni tra le quali la corruzione dilagava, allora come oggi. Quell’inchiesta era sacrosanta, coraggiosa, necessaria. Ma, cammin facendo, l’attenzione morbosa dell’opinione pubblica alimentata dall’attenzione ossessiva della stampa ci rese tutti manettari, ci spinse a generalizzare, banalizzare, ritenere ogni suicidio nulla più che un’ammissione di colpevolezza, ogni avviso di garanzia una condanna automatica. Il capitano Zuliani – colui che materialmente eseguì l’arresto di Mario Chiesa dopo la denuncia dell’imprenditore Luca Magni – un giorno si ritrovò il Gabibbo di Striscia la Notizia sotto la casa di un indagato cui stava per essere comunicato un avviso di garanzia. Tra la gente che vedeva nell’inchiesta Mani Pulite l’unica salvezza per l’Italia ce n’era tanta mossa da reale senso delle Istituzioni, dal bisogno di vedere realizzata con forme diverse quella restaurazione morale chiesta anni prima da Enrico Berlinguer. Ma per tanta altra era solo una forma di rivalsa nei confronti dell’odiata politica, odiata in quanto tale, odiata perché il politico è solo un mangiapane a scrocco in giacca e cravatta, con un sacco di privilegi e nessun obbligo. Alla fine, questa rappresentazione deteriore favorita dai media è prevalsa e la politica è stata ridotta ad una sputacchiera, al “sono tutti uguali”, alla spiegazione di insuccessi personali e insoddisfazioni. L’onda lunga di questo movimento di pensiero ha prodotto i Girotondi, i movimenti legalitari, partiti come l’Italia dei Valori e un vasto consenso che, infine, è sfociato nella nascita del Movimento Cinquestelle. Ma non dimentichiamo che i missini, quindi il cuore della vecchia destra postfascista, furono tra i primi ad inscenare manifestazioni spettacolari per delegittimare il Parlamento. Chi si ricorda dell’ordine poliziesco “arrendetevi, siete circondati!” rivolto provocatoriamente ai deputati dal giovane Maurizio Gasparri?
Oggi i Cinquestelle, risultato storico di questa antipolitica, vanno a braccetto con la Lega. Può essere solo la conseguenza di casuali accordi politici, può essere qualcos’altro. Oggi è difficile distinguere, nei dibattiti sui social, un elettore medio grillino da un elettore medio leghista. L’odio per un’indefinita politica dei privilegi oggi si accompagna alla xenofobia e al razzismo. L’avversione viscerale per l’onorevole in giacca e cravatta è stata sopravanzata da quella per l’immigrato. Il ruolo che i media svolsero ventisette anni fa per canalizzare l’odio verso il politico, oggi è appannaggio dei social, infestati da haters e fake news. Così come nel 1992 un avviso di garanzia veniva spacciato per condanna sicura, oggi la calunnia di un sito fantasma diventa subito verità. È bastato correggere la mira del cannone: dall’alto della politica al basso dei disperati in cerca di vita su un barcone. Se i media avevano comunque forme di disciplina e controllo, contro l’informazione avvelenata delle bufale poco si può fare. Un lavoro da fini conoscitori della società, credo di poter dire. Alla base di tutto resta il bisogno di trovare un nemico su cui vomitare frustrazioni, insoddisfazione, un capro espiatorio cui gettare addosso la croce dei propri insuccessi. Ecco perché io credo che tra il 1992 e il 2019 non ci siano poi grosse differenze. Eravamo e siamo un popoli di infelici, alla ricerca di una spiegazione per quel qualcosa che manca sempre.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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