Di solito non mi occupo di faccende private di sconosciuti. Non mi piace ed evito volentieri. Soprattutto evito di origliare, ritenendolo un comportamento di dubbio gusto. Ma ci sono situazioni in cui la distanza fisica da un estraneo e i suoi modi, cospirano per risucchiarti in un vortice di cazzi altrui. Figuriamoci se gli estranei sono due, si siedono a mezzo metro da te in un salone gigantesco e vuoto, e alzano pure la voce. I due sono un ragazzo e una ragazza. Non parlano, vociano, specialmente lei. Anzi, solo lei, perché lui risponde a monosillabi e a voce molto bassa. Per un paio di minuti percepisco solo il volume della voce di lei, e il tono. Non sembra arrabbiata. Poi la voce si fa più stridula, tirandomi dentro il loro spazio vitale. Parla di una terza persona, una donna, con cui lei ha avuto uno screzio. Dice cose sanguinolente mischiate a modi di dire e luoghi comuni, tipo: “l’altra volta quella si è permessa di parlare male di me, e si è ritrovata senza ovaie. Vuole ritrovarsi senza ovaie anche lei? Non c’è problema, si ritrova senza ovaie…”. Mi alzo per prendere un caffè ma al mio ritorno non noto cambiamenti. “Cosa cazzo si crede, che la passa liscia? Lei non ha capito cosa le combino”, e giù altri riferimenti anatomo-chirurgici, poco ornamentali sulle labbra di una donna. Allora inizio a guardarli. Età apparente, meno di vent’anni. Lei piena di piercing, vestita di scuro, pronta per affrontare qualunque vicolo buio. Lui coi capelli rasati, un viso cupo da bambino con la barba chiara e cortissima. Gli occhi guardano cose che io non vedo. Hanno una rabbia che mi lascia indeciso tra la paura e la tenerezza. Anche lui veste di scuro, anche lui pronto a chissà quale guerra. Un attimo prima di andare via, lui riceve un messaggio. Lei inizia a chiedere chi è. Lui gira il cellulare così lei non vede, e lo fa in silenzio. Lei cambia completamente tono. Ora ha paura, è scoperta. Teme che sia una rivale, una che le può portare via il ragazzo in cambio di chissà quale incantesimo. Insiste. Lui resta quasi muto; le concede solo qualche monosillabo dei suoi. Scendiamo tutti le stesse scale, perché il traghetto è arrivato a Palau. Io sono in fila dietro di loro, difronte alla passerella in ferro che cala piano sulla banchina. Sono piccoli. Peseranno novanta chili in due, come me e il mio gatto. Magri e scuri, graziosi e furibondi. Scesi dal traghetto si separano. Forse si sono lasciati, forse semplicemente lui è andato a fare il biglietto per l’autobus che aspetta più in là. Lei cammina da sola. È bella, rozza e bella. Chissà cosa intende per “felicità”.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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