La mattina, prima di uscire di casa ascolto un po’ di musica per augurarmi una buona giornata. Uso il computer che oramai fa da televisore, sala cinematografica personale e stereo. Al solito, prima di “ascoltare” il video musicale che scelgo, devo sorbirmi dei lenti, snervanti secondi di pubblicità. Uno spot che mi perseguita in queste settimane sponsorizza un sito per l’ordinazione di cibi da ristoranti e fast food convenzionati. Il messaggio di persuasione, più o meno questo: “ Perché perdi tempo a cucinare, tagliuzzare, sporcare la cucina quando puoi solamente mangiare?”. L’esser d’accordo o no dipende dal significato che si dà alla nozione di tempo. Per gli autori della pubblicità il tempo deve coincidere con la frenetica velocità che ti fa recuperare del tempo da riempire con una seduta di shopping in un centro commerciale dove puoi, all’occorrenza, anche mangiare; o magari tempo da spendere nel chiuso di una palestra dove ti impegni a bruciare quello che nel centro commerciale ti sei appena ingurgitato. Quello spot mi ha fatto un po’ rimanere male. Io, nel cucinare, ci “perdo” una quota di tempo non indifferente.
Quando iniziai a cimentarmi con la cucina, l’esito era sconfortante. Troppa cipolla. Troppo sale. Troppo poco sale. Cottura prolungata. Pietanze semi crude. Questi esperimenti avvenivano contemporaneamente all’osservazione di come i francesi riuscissero a rendere disgustoso un piatto di pasta con una vera e propria pratica di tortura. Immersa in acqua fredda e non salata, lasciata fondere trenta minuti a fuoco vivo durante i quali aggiungevano un’inspiegabile, per la sua inutilità, goccia d’ olio. L’assassinio terminava col condimento: letale tonno al naturale più mais in scatola. Capii che cucinare equivaleva a prendersi cura di se stessi e degli altri. Nelle settimane, iniziai a recuperare i ricordi di quello che vedevo fare a casa mia e zittii il mio vicino di stanza algerino che mi chiedeva spiegazioni sulla punta di zucchero nel sugo. Imparando, lo scopo era riprodurre il sapore dei cibi preparati da mia madre. Per sentirmi a casa anche quando non c’ero. Questa sfida riesce sempre più spesso, anche se lei, mia madre, non ci crede, e continua a pensare che io sopravviva grazie a panini e surgelati. In Inghilterra, giornata di Pasqua soleggiata e libera, rimasi a casa e occupai l’intera mattinata a preparare un ragù. Ci feci fare colazione alla mia coinquilina nigeriana, svegliatasi come suo solito, a pomeriggio inoltrato. Era contenta. Il giorno dopo sorpresi l’altra coinquilina francese con le mani immerse nel macinato di carne. “ Ho visto quello che hai preparato ieri e sembrava davvero buono. Lo voglio fare anche io”, mi disse col suo bello e buffo sorriso. Ripensandoci,non mi sembra di aver perso del tempo. Detto questo, stasera alzerò la cornetta del telefono e ordinerò una pizza.
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