Dello scrittore e ambientalista algherese Luciano Deriu, Sardegnablogger ha già pubblicato la recensione dell’avvincente libro sul passaggio in Sardegna, durante la seconda guerra mondiale, di Antoine de Saint-Exupéry. Oggi Luciano ci ha concesso questo suo magnifico reportage sul viaggio a Cuba da lui compiuto a febbraio, a pochi mesi dalla scomparsa di Fidel Castro. Buona lettura!
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2 febbraio 2017. In viaggio a Cuba. Si può viaggiare in vari modi. Ma i treni non ci sono, i bus sono impossibili per il disagio e la lentezza. Meglio prendere una macchina. Ce ne sono bellissime anni Cinquanta. E non costano molto. Una piccola utilitaria! Puntiamo su La Habana
2 febbraio. Trovato casa a La Habana. Le case sono quasi tutte uguali. Facciate ricche, belle e artistiche, dentro gli appartamenti sono anni Quaranta, non sempre funzionali. I palazzi sono splendidi, ma moltissimi rattoppati alla meglio. Si legge il racconto dell’antico splendore commerciale di una città di mare, poi abitata da colonialisti e da schiavi raccoglitori di zucchero e tabacco. Il tutto si sposa con tempi di estrema obbligata sobrietà
A La Habana non c’è bisogno di impostare sul cellulare l’orario di sveglia. Alle 7,30 ti sveglia il panadero; vende pane per la strada. Alle 8 a urlare a pieni polmoni è l’uomo dell’aglio. Ne ha cinque collane attorno al collo. Quando esci nelle vie, di giorno o di notte, allegria, balli e frastuono sono assicurati. Salsa e rumba sono sempre a tutto decibel, intramezzati da urla di venditori e martelli pneumatici che buttano all’aria il selciato storico, nessuno sa perché. Poi tutti alla Floridita, il locale di Hemigway, a bere Mojito. Nelle loro belle divise gli alunni delle scuole fanno educazione fisica in una strada secondaria, che la polizia prontamente chiude al traffico.
5 Febbraio 2017, a Cuba è come se fosse luglio. Al Parco Central si chiacchiera con tutti. La gente della strada vive la politica con leggerezza. Qualcuno si lamenta del governo. Perché? Perché fa pagare le tasse, accidenti! Molte ragazze hanno la t shirt con la faccia del Che. Come mai? Porque es mi amor! Già dieci giorni a La Habana un po’ ti stanca. Il pomeriggio cerco di dormire ma la rumba è sotto casa. E più in là c’è un incendio. Non ci si annoia mai. I bambini giocano nella strada come da noi tanti anni fa.
13 febbraio. La casa a La Habana doveva essere una dimora aristocratica, oggi in forte degrado. La famiglia che mi ospita, è una famiglia cubana. Che vuol dire famiglia allargata, molto larga. Ci sono i proprietari, marito e moglie, con figli e figlie dei precedenti matrimoni, nonno e nonna. Sono tutti affettuosi. La mattina, a colazione, si salutano con baci. Il rivoluzionario è il nonno. Per essere vissuto ai tempi della revolucion (senza partecipare) lo chiamano el comandante (anche io). Ora l’azione rivoluzionaria si è ridotta. Per el comandante consiste nel scendere nella strada la mattina ad aspettare lo strillone che porta il giornale Gramma (il nome della nave che portò i ribelli). Poi si sistema sulla dondolo di fronte al ritratto del Che, legge il giornale e commenta per ore ogni notizia. Ma oggi, 13 febbraio, si parte per Trinitad. Baci e abbracci. Ultima passeggiata sulla rambla, una delle più belle e larghe del mondo.
14 febbraio. Trinidad, metà febbraio, ancora caldo. Una bella cittadina, non ci sono palazzi, solo case, a uno o sue piani, tutte colorate naif, dal celeste al fucsia. Tutte hanno inferriate perché di notte possano chiudere le inferriate lasciando aperte le porte. La mia casa è a due piani con ballatoi interni che permettono di chiacchierare in orizzontale e, alzando la voce, anche in verticale. È gestita da cinque donne, sorelle o cugine, tutte solteras, nubili oppure separate. Caritad è l’amministratrice, scrive tutto su un quaderno. La cocinera (la mattina è professora di educazione fisica), addetta alla cena, è bravissima. Io mi sono intrufolato in cucina e sono riuscito a farle cucinare la langusta, l ‘aragosta, alla catalana, come si fa ad Alghero. Loro di solito la fanno alla piastra. Il centro del paese è Plaça Major, una larga scalinata, dove c’è sempre salsa e molta animazione. Musica più tranquilla, tipo Compay Segundo, nelle piazze vicine.
La notte tutti alla Plaça Central, salsa e Mojito a volontà. E qui l’unico che non sa ballare salsa, sono io. E anche il mojito, dopo due bicchieri, mi dà alla testa. In compenso si può parlare con tutti. Appena ti siedi c’è sempre qualche “where are you from?” Ma se rispondi in inglese ti dicono che quella è l’unica frase che conoscono. Serve per attaccare bottone, eh. Si parla spagnolo.
16 febbraio. I parchi a Cuba. Il primo che visitiamo è famoso; lo chiamano El Cubano. La tutela ambientale e rigorosissima, controllo militare. Sono protette perfino le termiti. Nello stesso tempo il parco è una macchina per fare soldi. Ogni giorno offre un servizio di escursioni su tre itinerari, le prenotazioni si fanno nelle agenzie turistiche a Trnitad, 30 persone per escursione, 25 euro con guida. C’è sempre il pienone. Scelgo il percorso La Cascada. Il trasferimento è su un malandato camion militare, poi a piedi. Personale del parco, solo 2, gli altri dipendenti sono tutti guide ambientali. Sentiero ben curato con passerelle, ringhiere, cestini per rifiuti. All’inizio è zona di piantagioni e ci mostrano (con una simulazione di frustate dolci) gli antichi strumenti di fustigazione degli schiavi. Ma solo 5 minuti, poi il percorso è tutto natura. Paesaggi tropicali, uccelli dai colori sgargianti, piante e alberi tipici; tutti addomesticati dall’uomo che ne ricava utilità e che la guida racconta con bravura. La meta è una piscina naturale formata da una cascata. Tuffi e bagno finale. L’acqua non è fredda.
17 febbraio. Dintorni di Trinitad. Lavori antichi di ieri e di oggi. C’è chi usa ancora la ruota del vasaio, ma con un motorino elettrico. Nelle campagne l’incredibile torre che sembra un campanile ed era la torre di avvistamento e controllo delle piantagioni degli schiavi. A due ore di macchina Santa Clara è ormai la città-mito della revolucion, perché è stato il teatro della battaglia decisiva per la conquista dell’isola. In piazza c’è ancora il treno blindato che era stato inviato, con 300 soldati governativi, per sconfiggere i rivoluzionari e che Che Guevara arrestò deviando i binari con un bulldozer. I soldati si arresero. C’è anche il bulldozer. Il museo del Che (gratuito), con la tomba e la lapide del Comandante nella Plaça de la Revolucion di Santa Clara è quasi deserto. Ci sono più custodi sfaccendati che visitatori. Nelle borgate i campesinos vanno a cavallo, i bambini giocano a trottola.
18 febbraio. Si riparte. Siamo al ventesimo giorno. Ci aspetta Remedios e le zone delle Cajos (isole) e delle spiagge. La casa è di lusso, un tempo proprietà del fazendero schiavista. Grande corte interna, giardino lussureggiante, dove scribacchio e schizzo disegnini a matita. Perché il viaggio è bello da vivere e da raccontare. Remedios è un piccolo centro, dove le donne cuciono i vestiti sedute sui gradini di casa. E ogni sera brigate di danzatori e musicisti girano in piazza o si spostano da un locale all’altro. Gli spettatori, che sappiano ballare o no, non possono sottrarsi, vengono subito aspirati nel vortice. Ai bambini basta una capretta per seguire il concertino e divertirsi.
20 febbraio. Spiagge e mare di Cuba. Da Remedios, bisogna raggiungere le isolette, dentro in un grande parco naturale. Prima si raggiungevano solo in barca. Ora hanno fatto una strada che le collega, 54 kilometri, un disastro per l’ecosistema delle isole, ma una fortuna per il turismo. Un’ora di strada in mezzo al mare sempre basso. La Gaviota va conquistata con una camminata di un’ora nella foresta. Ma quando il mare appare è un incantesimo. Sabbia fine bianchissima, conchiglie e gusci marini. Mare celeste, acqua bassa. Pochi pesci, il fondo però è sempre uguale come un’enorme piscina. La spiaggia è di lunghezza kilometrica. Servizi di spiaggia essenziali, 4 euro per avere sdraio e capanne di foglie di palma. Il giorno dopo un’altra spiaggia, Terrasas; stesse caratteristiche. Due giorni di sole e mare.
Ritorno a La Habana. 23 febbraio, questa volta vediamo di leggere la città, la sua storia, il suo popolo. Splendore e degrado stanno insieme. Grandiosi palazzi, chiese barocche, ci raccontano la storia di Cuba con la Spagna fino al Settecento, centro dei traffici delle Americhe. Si vede ancora immensa la Dogana sul porto, ora abbandonata. Poi, con i traffici monopolizzati dagli Inglesi, ancora con gli Spagnoli, terra di schiavismo, zucchero e tabacco. Ecco le ricche dimore del colonialismo, oggi occupate da popolani e in pieno degrado. Ed ecco i macchinoni del primo Novecento, protettorato americano e governi fantoccio, spaccio e corruzione fino agli anni Cinquanta. Oggi discendenti di schiavi e di schiavisti, neri, bianchi, gialli, mulatti, convivono tranquillamente. Nessuno fa caso ai colori della pelle. Si sente una certa povertà, ma una povertà senza spasmodiche attese di ciò che non hanno. Una sorta di low expectations. Internet funziona solo in un paio di piazze, ma il telefonino ce l’hanno tutti. Negozi e bancarelle quasi vuote, ma nessuno ha voglia di sgomitare per un’economia migliore. E per aprire un negozio va bene anche la finestra di casa. Il pan especial che si vende a 10 non è un granché, ma il sorriso della panadera ricambia abbondantemente. I prezzi del menù sono in moneta cubana, la doppia moneta che vale un venticinquesimo di un peso-euro (quello che usiamo noi) e con cui i cubani possono comprare i generi essenziali (pochi), pagare i locali pubblici e i taxi statali. Una specie di salario minimo garantito.
29 febbraio. È passato un mese, stanotte si parte. Torniamo a salutare il centro di Habana, l’animazione della Plaça vejia, le vie attorno e bere l’ultimo mojito. Una sintesi di Cuba, degrado e meraviglia. Ovunque una quantità di poliziotti, tutti giovanissimi, garantiscono la sicurezza. Sono i ragazzi della leva obbligatoria (due anni), utilizzati per l’ordine pubblico. Foto ricordo al Malecon. La notte il Malecon mi sembra più malinconico, anche se c’è sempre tanta gente che prende il fresco, pesca, passeggia. Nessuno fa caso alle belle signorine che offrono amore e compagnia. Si riconoscono perché sono più “tirate“ e portano borsetta all’occidentale. Se gli passi vicino sparano un sorriso e ti chiamano “amigo”. La prostituzione è teoricamente vietata, ma tranquillamente tollerata. Mi dicono che non esistono i protettori; ce n’erano tanti nel periodo americano, ma li hanno sistemati tutti in galera. Così anche gli spacciatori; non si vede droga da nessuna parte. E ora il viaggio è finito. È tempo di lasciare la casa che ci ha ospitato. Una casa particular come tante, la loro grande scoperta per fare turismo diffuso. Si vive in famiglie composte da almeno tre generazioni. Ai compleanni si riuniscono e fanno grande festa e i compleanni sono almeno una volta al mese. Si vive bene. Baci e abbracci a tutti. Torneremo. Stretta di mano vigorosa del Comandante. L’ultimo tratto in taxi verso l’aeroporto sembra confermare il volto di Cuba: auto grandiosa anni Cinquanta, roba da ricchi, musica a tutto volume, ma ai finestrini posteriori mancano i vetri e il vento della notte ti investe in pieno. E anche questa è Cuba. Addio Malecon, ciao Cuba
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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